sabato 29 dicembre 2012

E penso a te

 

Il cielo di nuvole sopra Milano si è spaccato e il sole fa capolino tra gli ultimi brandelli. Rimugino una canzone di Battisti che ho sentito stamattina alla radio, prima di prendere il treno. È strano però come la musica martelli la testa anche dopo ore e ore…

“Io lavoro e penso a te, torno a casa e penso a te, le telefono e intanto penso a te…”. Quella sera al piano-bar lei si è alzata e ha chiesto Battisti, canticchiava mentre il pianista suonava e la sera si faceva notte; e fuori la luna si rifletteva nel mare, sotto le piante gi ultimi bohemiens tiravano tardi, l’auto imbarcava aria salmastra nel buio e sputava musica country dai finestrini…

La metropolitana non è affollata nell’ora che porta a metà mattina, si trova posto a sedere. “«Come stai?» E penso a te, «Dove andiamo?» E penso a te, le sorrido, abbasso gli occhi e penso a te…”. Da Cadorna a Corso Magenta per l’assolata Via San Nicolao, è ancora presto: c’è tempo per fare quattro passi e osservare la gente, c’è tempo per questi miei pensieri.

E all’una di notte le luci dell’hotel, le auto nel parcheggio, e restare lì al fresco a raccontarsi, quest’amicizia speciale che offre sbocchi diversi solo a volere cercarli. “Non so con chi adesso sei, non so che cosa fai, ma so di certo cosa stai pensando…”. Luna gialla tra due pini, i tavolini di un bar all’aperto, lui ti sta portando via e io affogo nel mio bicchiere… Anni dopo altre storie, altri amori, altre bugie, ragazze belghe...

Deviazioni sul marciapiede di Via Meravigli, nastri bianchi e rossi appesi a ponteggi, un tram. "È troppo grande la città per due che come noi non sperano però si stan cercando, cercando...". Ma è cercarti venire sotto casa tua e nascondersi per non incontrarti? Ma è cercarti guardare se sei sul 24?

Il Duomo imponente aspetta le foto dei turisti giapponesi, ventisette gradi, le dieci e diciotto... "«Scusa è tardi», e penso a te, «Ti accompagno», e penso a te, sono al buio e penso a te...". Entro in libreria e sto ancora pensando alla nostra storia, quando sono venuto da te e tu sei partita e mi sono vendicato passando le sere con la tua omonima. E quando sei tornata, tra quel refolo di voci ho sentito la tua e mi sono precipitato da te, serata con spaghetti alla carbonara e fritto misto, magico 1982.

Pago il libro che ho scelto per trascorrere serate vuote senza te... "Chiudo gli occhi e penso a te, io non dormo e penso a te...". Torno sui miei passi, non ti ho trovata neanche oggi, ma che speranza ha questo modo di cercarti?

Novembre 1985

 

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FOTOGRAFIA DI FREDY MARCARINI

sabato 22 dicembre 2012

Natale 1932

 

- Buongiorno, Herr Günter, ha ancora un piccolo abete per me?

- Certo, Fräu Hildegard, sa che da me trova sempre l’albero giusto per ravvivare il suo Natale. Questo va bene? O gliene devo procurare uno diverso?

- No, guardi, va benissimo: la mia casa è piccola e io sono vecchia. Lo sa che ogni volta che l’anno finisce provo questa sensazione strana: come se la morte si avvicinasse di un altro passo, come se facesse un salto. Ed è per questo che provo anche compassione per il genere umano...

- Eh, non la vedo bella neppure per noi tedeschi in questa fine d’anno, signora cara. Non sono più i tempi dell’inflazione vertiginosa: dieci anni fa questo albero di Natale l’avrebbe pagato un milione di miliardi di marchi. Adesso nubi molto più minacciose si profilano all’orizzonte.

- Lo so, lo so che lei è sempre informato sulla politica. È socialdemocratico, se ricordo bene...

- Sì, signora, siamo stati l’argine fino a che si è potuto, ma adesso il fiume rischia di tracimare. Ora che Von Papen si è dimesso, non ho fiducia che il generale Schleicher riesca a formare un governo di coalizione.

- E allora chi ci governerà?

- Dio ce ne scampi, Fräu Hildegard, ma ho l’impressione che Hitler riuscirà alla fine a vincere le elezioni e a prendere il potere. Magari si servirà proprio di Von Papen, sfruttando l’amicizia di questi con il presidente Hindenburg e l’inimiciza con Schleicher. Ha già provato a negoziare lo scorso novembre. E comunque, se non ci riuscirà, Hitler troverà uno stratagemma per mettere le mani sul cancellierato.

- Quell’uomo mi fa paura.

- Non lo dica a me: me lo sogno di notte ed è un incubo inspiegabile: finisce sempre con grandi camini che fumano e mi sveglio tutto sudato.

- C’è qualcosa di inquietante nel suo sguardo, ha occhi cattivi.

- Ha ragione: io ho avuto l’occasione di leggere un suo scritto, qualche anno fa. Farneticante: parla di sterminii, di espansioni territoriali, si definisce Superuomo. Ha capito, adesso?

- Distruggerà la Germania...

- Lo temo anch’io, e non solo la Germania...

Be’, Fräu Hildegard, non stia lì a prendere freddo. Vada a casa ad addobbare il suo albero davanti al camino. E buon Natale...

- Buon Natale, Herr Günter, si riguardi.

 

HANS BALUSCHEK, “BEIM WEIHNACHTSBAUMVERKAUF”

sabato 8 dicembre 2012

Antani

 

L’altro giorno stavo aspettando il tram numero 18 in Via Buonarroti. Ero, in pratica, sull’isola pedonale in mezzo alla strada. Un furbacchione, o almeno uno che si credeva tale, rallentò e dal finestrino abbassato mi rivolse la parola: “La supercazzola brematurata ha lo scappellamento a destra o a sinistra?”. Riconosciuto all’istante lo scherzo di “Amici miei”, probabilmente tornato in auge per il risibile film appena uscito che ambienta la storia nella Firenze del ‘400, ebbi la prontezza di rispondere come avrebbe risposto il conte Mascetti: “Antani, come se foss’antani”.

Intanto il “furbetto” aveva passato l’incrocio con il semaforo arancione e una pattuglia di vigili lo bloccò in Piazza Piemonte. Ma giungeva il tram, e ci dovetti salire. Mi appostai sul lato destro, in modo da avere la visuale di quello che stava accadendo all’uomo in automobile – avrà avuto una quarantina d’anni, la barba sfatta, un maglioncino viola alla moda, probabilmente un avvocato. Una vigilessa gli stava elevando la contravvenzione. Passando, dal tram gli sorrisi. Lui ricambiò il sorriso con un’alzata di spalle. La zingarata era forse finita male, ma era riuscita…

 

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UGO TOGNAZZI (IL CONTE MASCETTI) IN AMICI MIEI, 1975

sabato 24 novembre 2012

La bella primavera

 

La primavera tanto attesa era cominciata: nel sole tornavano a volare le rondini, le gemme si gonfiavano sui rami nudi, le viole impreziosivano i prati.

Andrea guardò dalla finestra la via assolata scostando le tendine, la strada palpitava di vita: gli autobus arancioni si incrociavano alle fermate, le casalinghe tornavano con la sporta della spesa, le automobili alimentavano il fiume del traffico.

L’orologio segnava le undici e un quarto. Andrea quel giorno era solo negli uffici del Presidio, non aveva voglia di raggiungere la mensa per trovare del riso scotto e una cotoletta di pollo impanata.  Così decise di uscire a prendere da mangiare. Attraversò la strada larga e moderna ed entrò da Magnabosco. Il negozio era ad un piano inferiore alla strada: per accedervi bisognava scendere una corta scala rivestita di porfido. Oltre l’ingresso si innalzavano gli scaffali: sul primo, in bell’ordine, i liquori e in particolare le grappe aromatizzate con la pera, i mirtilli, le prugne e le albicocche, che attiravano l’attenzione dei clienti. Sulla destra c’era il banco frigorifero con i latticini e i surgelati, sullo scaffale in centro c’erano i prodotti da forno.

Andrea frequentava il negozio di Magnabosco più per il banco dei salumi e dei formaggi che per il fatto che fosse così vicino. Si poneva davanti alla bassa vetrina e osservava attentamente i prodotti esposti prima di scegliere ciò che solleticava maggiormente il suo appetito. C’era la mortadella di Bologna, con il pepe e i pistacchi, simile a una rosea luna butterata di crateri bianchi; c’era lo speck, esteriormente simile ad un tronco, all’interno rosso come un rubino, e poi salame ungherese, salame di Varzi, prosciutto di Praga, San Daniele, coppa, persino la bresaola, quella salsiccia piccante che i tedeschi chiamano “Salami” e gli immancabili kaminwurz tirolesi. E poi i formaggi, forme intere, spicchi, quarti: fontina, emmenthal, sbrinz, taleggi, Asiago, camembert.

«Cosa prende oggi?» chiese il signor Magnabosco, un omone di oltre 150 chili sempre rubicondo e allegro che il grembiule blu sembrava contenere a fatica, tutto l’opposto di sua moglie, una donnina timida ed esile.

Andrea domandò della stagionatura dello speck e si mostrò soddisfatto: Magnabosco gliene affettò un etto e lo depose in un pane nero che aveva precedentemente tagliato a metà con un lungo coltello affilato. Andrea si avvicinò al banco frigorifero e prese un vasetto di yogurt ai frutti di bosco e una birra Weihenstephan. Prese l’incarto che l’uomo gli porgeva e pagò.

Era quasi mezzogiorno. Andrea aspettò che scoccassero le dodici, poi chiuse l’ufficio dall’interno e si sedette con il sacchetto di Magnabosco. Scartò il panino, liberandolo dalla leggera carta rosa che lo racchiudeva, accese la radio e cominciò a mangiare guardando dalla finestra la vita nella strada: alcune ragazze attendevano l’autobus, il filare di pioppi lucidi per le gemme, il muro giallo e scolorito dell’ippodromo. La primavera gli aveva sempre messo allegria: sentiva l’euforia della rinascita. E quest’anno ancora di più: tra una settimana si sarebbe congedato.

 

FOTOGRAFIA © CIRCOLO UNIFICATO ESERCITO MERANO

sabato 17 novembre 2012

L’urso Knut

 

Doppo aviri indagato sulla morte del purpo Paul, il celebre indovino del Mondiale, Montalbano aviva oramà una fama internazionale di sbirro dei casi strambi assà. Soprattutto in Germania.

Aieri se ne stava assittato nel sò ufficio a farsi una penni... a ragiunari sulle carte che avrebbi dovuto firmari quanno gli parve che fosse addumata una bumma. Satò sulla seggia e vidi Catarella entrari praticamente appuiato all’anta della porta che ancora sbatacchiava. “Ah dottori dottori, ci sta al tilefono il signor Bestiabella che la cerca per un urso”.  Bestiabella? E chi era mai? “Passamelo, Catarella, grazie”. “Subito, dottori”.

Era il portavoce del ministro degli Esteri tedesco, Guido Westervelle, un figlio di immigrati siciliani, che gli spiegò più in dialetto che in italiano, che era morto l’urso Knut, il peluche bianco dello zoo di Berlino idolatrato dai bambini e po’ messo in disparte quann’era crisciuto. “Sospettiamo sia morto di malinconia” gli disse Hans Mannino – questo era il nome del portavoce. “Prendo il primo volo per Berlino” disse Montalbano, che sapiva che accusì avrebbi avuto di sicuro una sciarratina con Livia, la sò zita che doviva arrivari il giorno appresso da Genova.

Hans Mannino raccattò Montalbano all’aeroporto di Tegel e lo condusse allo Zoo su una veloce Mercedes nera. Il commissario si vrigognò non poco al pensiero della Tipo scassata che guidava a Vigàta. Knut era macari là, nella scena del crimine: galleggiava nella piscina del recinto. Era enurmi pensò Montalbano, che rammentava le immagini del peluche viste anni narré al telegiornali. Si fece dari un raffio dall’addetto e tirò a riva il corpaccione del povero urso. Stava tastando la pelliccia con la mano dritta quanno squillò il cellulari. Bih, chi camurria! Era Livia. “Salvo, sono all’aeroporto”. Livia! Se n’era dimenticato!

“Livia, mi dispiace, è che sono impegnato in un’indagine…”

“…”

“Facciamo accusì, ti manno Fazio, po’ appena posso ti raggiungo a Marinella”

“Potevi anche avvertirmi”

“Lo so, scusami, è che ho tante cose per la testa”

“Sicuramente avrai anche la tua amica Ingrid”

“Ma che dici, Livia? Sto travagghiando a un caso internazionali. Appena posso, arrivo. Ah, non prioccuparti: Adelina non c’è, è andata a trovare sò soro, starà via qualichi jorno”.

Montalbano astutò il tilefono, scosse la capa, avvisò a Fazio di correri all'aeroporto di Palermo e si rimise a taliari l’urso. Vide un minuscolo pertuso rosso  vicino all’occhio mancino. Esecuzione mafiosa… No, in Germania… Taliò intorno, poi trovò un filamento verde: un pezzo di tessuto loden. “Vinditta” sentenziò allora Montalbano. “Ve l’arricordati la storia dell’urso Bruno?  Il 26 giugno del 2006 venne ammazzato in Baviera. era un urso italiano che dall’Adamello era salito in Germania in cerca di mangiari, come molti altri italiani prima di lui”

“Certo, mi ricordo” disse Mannino, “è stato imbalsamato, lo si può vedere nel castello di Nymphenburg”

“In Trentino se la sono legata al dito: avivano prumisso vinditta. Ora l’hanno avuta: lo vede quel pertuso minuscolo vicino all’occhio mancino? Sciaura di mandurle amare, signo che è stato iniettato cianuro”.

“Faremo le analisi, commissario. Grazie mille.”

“Prego. Fanno 100.000 euro, e si sbrighi, ché devo andare all’aeroporto. La mia zita mi aspetta e quanno aspetta diventa nirbusa”.

 

20 marzo 2011

 

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sabato 10 novembre 2012

La ragazza dei suoi sogni

 

- Cos’è?
- Pinot Grigio.
- Non è che ci hai messo dentro del Roipnol?
- No, per chi mi hai preso?
- Scusa, è che ci conosciamo da poco.
- Per me hai visto troppi episodi di CSI, e hai letto troppo attentamente quei libri delle 50 sfumature.
- No, scusami ancora, è che sono tempi difficili e non sai più di chi fidarti. Ho già preso tante di quelle fregature…

Sarah beve dal calice che contiene liquido ramato e subito la vista le si annebbia, in pochissimi istanti perde i sensi. C’era del Roipnol… L’enigmatico Stefano le toglie il bicchiere prima che cada e si frantumi sul pavimento di marmo italiano. Ma non ha alcuna intenzione di violentarla, né di farle del male.
Si siede e la guarda così, incosciente e indifesa, in totale balia di quello che lui potrebbe farle.

“È così bella” mormora, “Sei così bella”. Poi avvicina una macchina su un carrello a rotelle. A prima vista somiglia a una di quelle che negli ospedali usano per la TAC portatile. Ma non lo è. Prende degli elettrodi dal marchingegno e li attacca alla fronte e sulle tempie di Sarah. È una macchina che legge i ricordi e li analizza cercando un’immagine particolare: è solo quella che interessa a Stefano. Una fotografia di lui più giovane, ragazzo di sedici anni, il giorno in cui incontrò una ragazza senza nome e se ne innamorò quando lei lo guardò e lo baciò – è quell’immagine che cerca ormai da mesi in donne sui trent’anni che assomigliano a quella misteriosa ragazza apparsa come una meteora in un bar di Torino.

La macchina elabora dati per quasi un’ora – sembra impossibile che i ricordi di tutta una vita si condensino in così poco tempo, ma è la memoria stessa ad effettuare una selezione – e infine emette un bip. Stefano, che sta osservando ormai da minuti Sarah che dorme, fantasticando una vita futura con la ragazza dei suoi sogni, corre allo schermo: NO MATCH… Batte con stizza una mano sul pomello della macchina, poi stacca gli elettrodi dalla testa di Sarah e la prende in braccio con delicatezza. La porta nella camera da letto e la adagia sul materasso, rivestendola con una coperta. Quando si sveglierà le racconterà che ha avuto uno svenimento… Come le altre quattro. E poi uscirà a cercare ancora nelle strade di Torino quel volto mai dimenticato, invecchiandolo mentalmente di una quindicina d’anni.

 

JACK VETTRIANO, “MYSTERY MEN II”

sabato 3 novembre 2012

Macchina del tempo

 

Eccolo che scorre come un fiume disperato, un ammasso di straccioni che portano uniformi sbrindellate e marciano sulle piste di sabbia del deserto. Puoi riconoscere ancora i galloni, le insegne, i gradi del comando nei vecchi pastrani tenuti per la notte, nei lembi di camicie usate a mo’ di turbante, nei laceri stracci che ora rivestono piedi incrostati e coperti di vesciche. Un esercito allo sbando che marcia disordinato e coperto di polvere – sono lontani i tempi in cui il passo marziale cadenzava le marce ritmando i passi come una sinfonia. Sconfina e invade nuovi territori, preda affamato, saccheggia quello che può avanzando verso un’ignota meta, verso una liberazione dall’accerchiamento di questo invisibile nemico che compare a tratti nei discorsi dei soldati ma che nessuno ha mai visto. Lo avete riconosciuto il simbolo che campeggia sul vessillo logoro che un alfiere cencioso porta in testa alla compagnia? Una clessidra. Perché quell’esercito allo sbando è il tempo.

Scorre come un fiume, il tempo: una ragazza mi disse un giorno che l’amore è un sentire che viene dal profondo e comporta un mutamento, lo devi sentire come il violinista sente e domina una corda che vibra. Io non ho saputo padroneggiarla quella corda, forgiarla sotto le mie dita, sotto l’archetto per trarne una nota che suonasse armoniosa. E davvero come un fiume in piena è fuggito il tempo, è straripato e non ho mai saputo se quella ragazza provasse vero amore o solo un grado di intensità dell’amicizia.

Fedele amico mi è il rimpianto adesso, quando la sera stanco chiudo gli occhi e numero le occasioni perdute – una sorta di Guido Gozzano davanti al caminetto con le sue rose non colte e le fisime di poeta – per sognare ancora quella ragazza sensata, per figurarmi le parole che le direi se qualche macchina potesse miracolosamente cancellare il trascorrere del tempo, esattamente come una spugna porta via la polvere e lascia il vetro limpido e pulito. Ma il tempo passa, è una nave che non si ferma, non hai mai voltato indietro la sua chiglia solida.

 

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FOTOGRAFIA © JIGSAWZ

sabato 27 ottobre 2012

Scrivere


Qui davanti al monitor illuminato del mio portatile Acer Aspire 3610, su questo foglio bianco simulato da Microsoft Works sullo schermo, scelto il carattere Trebuchet corpo 12, mi accingo a scrivere. Seduto alla sedia di cucina, avvolto dal calore dei mobili di ciliegio e del termosifone dietro le mie spalle, davanti a me la finestra velata dalle tendine, il ticchettio della sveglia svizzera appesa al muro, le 15 e 55 quasi di questo mercoledì di gennaio, sto per scrivere.

Messe le cose in chiaro, accarezzato con lo sguardo il vaso di vetro che contiene quei fiori finti di tipo etnico comprati all'IKEA e qualche rametto di lavanda che ho essiccato a settembre e legato con un sottile nastro verde - il vaso ha una vistosa crepa verso la base, è per quello che ci ho messo i fiori di legno e la lavanda: non può contenere l'acqua - ho in animo di scrivere.

Guardo gli acquarelli sulla parete bianca: rappresentano anch'essi fiori: un ramo di strelitzia, un altro di fucsia, delle margherite gialle, mi piacciono perché contrastano con la tempera del muro. Sulla sinistra, sulla cucina, accanto al lavello, sotto le mensole dove giacciono le spezie, ordinate come soldatini, e i vasi con lo zucchero, il sale e il caffè oltre a ninnoli portatimi da svariate parti del mondo - il vaso tunisino, la brocca turca a forma dromedario, la teiera inglese, la tazza di Alicudi - ecco il contenitore con le forbici e gli arnesi da cucina, il ceppo con i coltelli, la biscottiera e il vaso di cristallo con i rami di Dracena. Dopo questa descrizione un po' alla Robbe-Grillet, sono pronto a scrivere.

Ma non ho niente da dire, non so cosa scrivere...


14 gennaio 2009


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FOTOGRAFIA © JAKUB KRECHOVICZ

sabato 20 ottobre 2012

Anime

 

Il tramonto colorava di arancione e giallo il cielo sulla pineta, al lato opposto del mare. E il mare ora non accecava più, privato dei suoi riflessi, sembrava più scuro, il suo grigio era da lago di montagna. Le barche sulla riva risaltavano maggiormente, sembravano aver preso importanza ora che il sole se n’era andato dalla scena e usciva dietro le quinte dei pini. Seduti sulla staccionata dipinta d’azzurro gustavamo in silenzio l’infinita dolcezza di quel momento e il silenzio era parte fondamentale di esso.

Quando scese, la notte di stelle ardeva silenziosa in armonia con il frinire dei grilli. La mia mano incontrò la sua e la strinse: in quell’istante fummo una cosa sola, due anelli saldati l’uno nell’altro. Attraverso il tatto, attraverso la leggera pressione della mia mano sulla sua sentivo, come se fosse la mia, il palpitare della sua vita e la sua infinita purezza. Non c’era altro mondo, altro universo all’infuori di noi e delle stelle, ogni altra cosa scompariva di fronte alla dolcezza della notte.  Fu solo la consapevolezza di un istante, che sembrò immenso, in cui le nostre due vite si unirono in un unico cerchio chiuso.

In quel magico tempo ci interrogammo muti: la sua risposta fu un silenzio. Non replicò nulla alla domanda che io le avevo posto. Anche la mia domanda era un silenzio, un tacito intuirsi e capirsi. Eppure lei comprese la mia domanda, io compresi la sua risposta. E la purezza che traboccava da me, inespressa a parole ma urlata dal silenzio, si concentrò nel suo grido silenzioso di gioia. Non avremmo mai più avuto bisogno di parole per comprendere i nostri sentimenti.

Attraverso la mano di lei, che stringevo nella mia, l’amore era in me come un fiore tatuato permanentemente sulla mia anima. E tu che mi leggi, se adesso con qualche miracoloso stratagemma o marchingegno potessi guardarvi, ve lo troveresti ancora. 

1994

 

FOTOGRAFIA © ANTHONY MICHAEL POYNTON

sabato 6 ottobre 2012

Ballare bene

 

“A balàa bègn se fàa la murusa” diceva mio zio, quando le sere d’estate giocavamo a scopone scientifico e toccava a me calare sul tavolo una carta perché non potevo effettuare una presa. Mi vedeva indeciso e immancabilmente ogni volta saltava fuori quella frase. Cercavo di mettere una carta di scarso valore, un quattro, un cinque, il due o il tre se erano già stati conquistati quelli di quadri. In qualche occasione, quando mi sentivo ispirato, stupivo spazzando con l’asso o buttavo un sette. Ma il più delle volte mi toccava abbozzare e “ballare”.

Quando lo zio mi diceva che “a ballare bene ci si fidanza” – quello significa la frase in dialetto milanese – ero un ragazzo di sedici-diciassette anni e mi vedevo sulla pista di qualche discoteca a ballare vestito come John Travolta: “La febbre del sabato sera” era solo di qualche anno prima, avevo visto “Il tempo delle mele” in un cinema di Bergamo e “Stayin’ alive”, “Flashdance” e “Footloose” stavano per uscire. Danzavo con una bella ragazza, di quelle che magari avevo incontrato durante il giorno o quelle che avevo conosciuto al mare. Il gioco, inevitabilmente, proseguiva: gli altri prendevano o a loro volta “ballavano”, ma io continuavo a distrarmi, a piroettare, a flirtare con le mie immaginarie compagne di danza…

“Tocca a te…” spesso mi dicevano e allora osservavo il gioco ed eseguivo la mia mossa… Se mi toccava “ballare” ancora allora sì che erano guai!

 

FOTOGRAFIA © ALLMOVIE / PARAMOUNT

sabato 29 settembre 2012

L’ultimo giorno di naja

 

    Per il congedo Andrea Lievi tornò nella caserma del reparto cui apparteneva. Avrebbe dovuto restarci tre giorni e un po' temeva la fama del colonnello Tripodi, che del resto aveva conosciuto durante le due settimane al campo estivo. Tripodi, come lo chiamavano i soldati saltando sbrigativamente il grado, assegnava punizioni in maniera bizzarra: nessuno poteva considerarsi al sicuro in nessun angolo della caserma.
    Andrea ricordò un episodio avvenuto al campo: il suo amico Randoni era di guardia nelle ore notturne al rimorchio che fungeva da armeria quando il colonnello Tripodi, rientrando alla sua tenda da qualche bar della zona, gli rivolse la parola. Ligio alla consegna, Randoni tacque ad ogni domanda posta dal colonnello, che infine sbottò: "Sono il tuo comandante, perdio, parla!". Randoni tacque e Tripodi probabilmente assunse la stessa espressione che doveva avere avuto Michelangelo quando tirò una martellata al suo Mosè di marmo che rimaneva muto.
    Fu lo stesso Tripodi a raccontare l'episodio a tutto il reparto schierato durante l'adunata del mattino. Randoni era visibilmente arrossito. Si vide appioppare otto giorni di punizione che non meritava. Ciò che più gli dispiaceva era che, non essendovi telefoni al campo, non avrebbe potuto parlare alla fidanzata per una settimana. Chiese proprio ad Andrea di avvertirla che per un po' non si sarebbero potuti sentire.
   
    La jeep che avrebbe dovuto riportarlo alla sua vecchia caserma arrivò. Andrea salutò il maresciallo Peruzzello e i Carabinieri del Nucleo, fissò un appuntamento per la sera con Dossi e Ferrola e partì. Dopo essersi registrato tornò nella stessa camerata dove aveva passato pochi giorni e il caporale di giornata gli trovò una branda. C'erano altri congedanti e li conosceva tutti: Randoni, Bassi, Caini, Pagliarini, con cui aveva diviso il campo; Luraghi, l'architetto con cui tante sere d'estate aveva bevuto cocktails al Café Liszt; Cesare Cantù, con quel nome importante e quell'aria così snob. E soprattutto Randazzo, l'avvocato.
    La sua ingenuità non aveva limiti. Randazzo era diventato una leggenda la notte che, di guardia sull'altana, lanciò l'allarme e fece accorrere il capoposto e l'ufficiale di picchetto. "Che c'è?" gridarono dopo l'avvenuto rito di riconoscimento. "C'è un cane che abbaia, credo che abbia fame" disse Randazzo "non si potrebbe portargli una scatoletta di cibo per cani? Compratela allo spaccio, la pago io". Tripodi lo punì, ma non era per quella punizione che Randazzo si sarebbe congedato il giorno dopo gli altri: il rigore lo aveva ottenuto per un atto di nonnismo - se poi tali atti erano da considerare tali, o non piuttosto scherzi goliardici, vista la loro bonarietà, almeno lì, tra dottori e diplomati - non denunciato all'ufficiale di picchetto.
    Randazzo girava per la città con una bicicletta che si era portato da Bergamo. La sera del suo compleanno, nel mese di agosto, quando già Andrea Lievi era nell'altra caserma, lo invitò a cena con altri due compagni della prima ora e si era procurato in un supermercato una bottiglietta di grappa Williams. Bastarono due sorsi per ubriacarlo; quella sera Andrea aveva portato la bicicletta in caserma mentre gli altri due, Luraghi e Bassi, conducevano Randazzo.
    Andrea sorrise dell'ingenuità dell'amico e se ne intenerì; ripensava a quella sera e ricordava le stelle nel blu mentre da solo, depositata la bicicletta al corpo di guardia della caserma di Randazzo, tornava a piedi alla sua caserma, distante un chilometro.

    Bassi entrò giubilante: "Ragazzi, ho il permesso di uscita per tutti per i prossimi tre pomeriggi. Anche per te, Andrea. Purtroppo, Randazzo deve restare: Tripodi non vuole sentire ragioni, considera la punizione".
    Uscirono tutti nel sole di aprile, leggeri come fantasmi - del resto i congedanti nel gergo della caserma venivano detti “fantasmi” o “borghesi”. Avveniva dopo il prelievo obbligatorio di sangue. Prima di allora, in quell’ultimo mese venivano chiamati “Max” e quando uno di loro entrava nella stanza, soleva gridare “Ritti, perdio, entra la Max!”.

    Piantavano dei pali dentro il fiume, grandi draghe sostavano sul greto sassoso del Passirio presso il ponte a passerella che conduce in zone un poco periferiche. Com’era verde l’acqua: sembrava quasi opale!
    E camminando sulla passeggiata, alle spalle la Chiesa protestante, Andrea guardava gli operai che lavoravano all’aria tiepida di primavera chiedendosi lo scopo di quei pali, sapendo che sarebbe partito prima che finissero, senza conoscerlo.
    Il pomeriggio scorreva leggero, l’aria di primavera riscaldava i cuori. Nelle antiche vie andavano assaporando quella libertà che l’indomani avrebbe portato. Guardarono le vetrine e le commesse dei negozi del centro, sulle panchine Liberty del lungofiume sostarono oziando ed osservando i bianchi gorghi, dimentichi che quella compagnia il giorno seguente si sarebbe disgregata.
    Bevvero birra al banco della Forst, girovaghi perduti nel meriggio. Personaggi di un libro di Hermann Hesse, cenarono insieme come a celebrare il ritorno alla vita, presto liberi quando sarebbe ritornato il sole.

 

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MERANO, CASERMA BOSIN (ORA ABBATTUTA)

sabato 22 settembre 2012

Nove giorni all’alba

 

Andrea Lievi entrò nella camerata buia, rischiarata solo dalle luci di guerra che diffondevano un chiarore bluastro così da illuminare sufficientemente senza disturbare il sonno. Si spogliò in fretta, controllò che il letto fosse stato fatto normalmente e che nessuno avesse eseguito lo scherzo del "sacco" ripiegando le lenzuola a metà in modo tale che non ci si potesse infilare. Non c’era neppure dello zucchero, solo un palloncino legato alla testiera da qualche buontempone. Il letto era stato fatto a regola d'arte. Era una buona abitudine invalsa in quel plotone quella di far trovare pronta la branda a chi tornasse da una licenza.
Andrea depose la borsa nell’armadietto e appese il giubbino di jeans a una gruccia. “Mi mancherà…” pensò di quello stretto cubicolo di metallo grigio. “In fondo è stata la mia casa per tutto questo tempo. C’erano i suoi ricordi: biglietti del cinema, una cartolina spedita da un’amica incollata con del nastro adesivo appena sotto lo specchio, ombrellini decorativi di cocktail, la locandina di un night club dove non era mai stato, la pubblicità di un locale del centro, il Pub One. E un contenitore realizzato con la scatola di cartone del profumo Brut, dove svettavano il pettine e lo spazzolino.
Fuori il piantone cercava di passare il tempo leggendo un fumetto. Se fossero arrivati il capitano Del Grano o il tenente Pulvirenti sarebbero stati guai… Ma tutto era tranquillo, la luce entrava riflessa nel corridoio delle camerate mischiandosi con il riverbero blu delle fioche lampade di guerra. Andrea si mise il pigiama e andò in bagno con il suo necessaire color crema.
Era mezzanotte quando si coricò. "La mia ultima licenza" pensò, "domani in ufficio sposterò la bandierina a 51 giorni passati a casa e a nove soltanto quella dei giorni al congedo". Era una specie di gioco dell'oca che qualcuno aveva ricavato da una scatola di cartone che aveva contenuto carta per ciclostile: vi erano disegnate tante caselle quanti i giorni di leva da compiere e un prospetto con i giorni di licenza; le bandierine erano spilli con un triangolino di carta colorata. Il suo era verde; quello di Dossi, il suo collega, che ora stava dormendo nella branda sotto la sua, era gialla. Tra di loro c'erano sessantadue giorni di differenza, ma Andrea non faceva pesare quella sua anzianità, anche perché in ufficio comunque comandava lui, in virtù del grado di caporale e della maggiore esperienza, superiore anche a quella del maresciallo Peruzzello, subentrato nel corso dell'anno al maresciallo Illica.

Suonò la sveglia. Andrea guardò l'orologio: le sei e trenta. Balzò in piedi e andò a lavarsi; gli altri stentavano ad alzarsi. Quando tornò trovò un sergente che non conosceva: stava facendo la ramanzina a qualcuno che aveva trovato a letto. Andrea salutò Dossi e gli altri commilitoni che armeggiavano negli armadietti vicini.
Passò a far colazione nella mensa provvisoria, ricavata in un enorme garage. La mensa originaria, dove era riuscito a pranzare solo per pochi giorni dal suo arrivo in quel battaglione era in fase di restauro. Da lì raggiunse l'ufficio attraversando una parte piuttosto nascosta della caserma, passando davanti alla casetta del sarto, al magazzino delle trasmissioni e al deposito all'aperto di camion, cucine da campo, rimorchi e spazzaneve. 
Andrea lavorava alla delegazione staccata del Presidio militare. Era un'abitazione a un piano, dipinta di verde chiaro, che in passato era stata il Circolo dei sottufficiali. Di fronte ad essa un'analoga casetta, il Nucleo Carabinieri, dove lavorava Ferrola, altro compagno di camera, e dove prima di lui aveva lavorato Miglio, suo inseparabile amico per tutta l'estate e l’autunno. Erano quattro mesi già che Miglio si era congedato. "Tocca a me, ora" pensò Andrea e salutò Ferrola che arrivava dalla stradina che lui aveva percorso pochi istanti prima. Tra le due abitazioni c'era un piazzale asfaltato e una ramata con cancelletto separava i due uffici dal resto della caserma. Un cancello scorrevole dipinto di verde dava accesso alla strada di fronte all'ippodromo: da lì loro, che possedevano le chiavi, potevano entrare e uscire indisturbati tutte le volte che volevano. Andrea, con la sua prudenza, diventata ormai proverbiale tra i compagni, ne aveva approfittato solo una volta, una domenica mattina in cui erano venuti a trovarlo i suoi genitori con degli amici. Dossi e Ferrola facevano lunghe fughe notturne e nei week-end tornavano addirittura a casa.
Era una base da cui partire, un luogo sicuro che gli altri della caserma non avevano: qualche sera vi si trovavano anche, con qualche amico fidato.

In ufficio non c'era nessuno, il sole entrava caldo dalle finestre senza tendine della sala d'aspetto e disegnava le ombre sul pavimento di palladiana. Aspettando che arrivassero Dossi o il maresciallo, Andrea iniziò a risolvere i giochi della Settimana Enigmistica. Era il suo hobby: sapeva risolvere quasi tutti gli enigmi, anche quelli difficili, e suscitava ammirazione in tanta gente questa sua abilità, frutto di una buona intelligenza, certo, ma anche di anni di cultura classica e di un costante aggiornamento.
Intanto nella strada gli autobus si susseguivano sbuffanti e frotte di ragazzi raggiungevano il centro. Andrea notò una ragazza carina: aveva i capelli  biondi e ondulati e un grazioso nasino all'insù, indossava dei jeans molto aderenti che le mettevano in risalto le forme. Dopo qualche minuto un autobus se la portò via verso i negozi del centro.
Pensò che questo fatto sintetizzava bene la loro condizione di soldati: vivevano come dietro un vetro - una gabbia di cristallo - e al di là di questa la vita scorreva normalmente, con i suoi amori e i suoi dolori. Ma dentro la gabbia vigevano regole differenti, la vita stessa sembrava sospesa, condizionata da un’attesa continua del congedo: si contavano i giorni, o per meglio dire, secondo il gergo militare, le “albe”; si percorreva una gerarchia salendo di gradino ad ogni scaglione che se ne andava. Da “nipote di terza” si diventava nel corso di undici mesi “La Max”, quello che Andrea era adesso. Tra qualche giorno, effettuato il prelievo di sangue obbligatorio, sarebbe diventato “fantasma”, quello che c’è ma non si vede, detto anche “borghese”.
In quel momento arrivò Dossi: entrò nell'anticamera e lasciò stancamente giacca e cappello sull’attaccapanni. Non amava molto la vita militare, lui. Disprezzava quel cappello con la penna che Andrea invece amava, anche per tradizione familiare. Diceva sempre che al congedo l’avrebbe buttato in autostrada. Dossi aveva portato a Merano la sua Alfetta 2000 blu. Era sempre pulita e tenuta con cura, Andrea spesso elogiava questo comportamento dell'amico, lui che invece non dedicava molto tempo alla sua auto e che non si intendeva molto né dei motori né delle ultime novità. Dossi invece sapeva citare qualsiasi dato delle auto sul mercato: prezzo, cilindrata, consumi, se avessero la trazione anteriore o posteriore, numero dei cavalli-vapore e così via.

Dossi sacramentò perché con la coda dell’occhio aveva scorto la Visa azzurra del maresciallo Peruzzello fermarsi davanti al cancello: uscì e fece scorrere la lunga inferriata verde. Non era necessario salutare militarmente - erano tutti comportamenti che si apprendevano osservando gli “anziani”, Andrea imparò dal suo collega Farina, Dossi da Andrea. Solo davanti agli ufficiali si portava la mano alla fronte: il tenente colonnello Franchi, per esempio, che era stato titolare del Presidio e che venne a reggere la Delegazione nel mese vacante tra i due marescialli; o il colonnello Bon, suo amico, che qualche volta venne a fargli visita; o quando si incrociava il maggiore dei Carabinieri che giungeva a ispezionare il vicino Nucleo.
Il maresciallo, un casertano piccolo e robusto - veniva da Marcianise - sembrava, come ogni giorno, aver dormito con la divisa addosso. Si sedette nel suo ufficio e chiamò i ragazzi per i compiti da svolgere quel giorno.
«Lievi, oggi dovrebbe arrivare il tuo sostituto: spiegagli un po’ quello che deve fare, mostragli gli archivi e… insomma istruiscimelo bene perché tu sai tutto qui…» la sua voce cavernosa rimase sospesa nell’aria mentre tossiva, «si chiama Mair, è un altoatesino». Poi guardò Dossi e spalancò un ampio sorriso: «Lo vogliamo congedare il tuo amico qui? E allora prepara l’ordine per il prelievo di sangue, ciclostila tutto ché poi io faccio firmare al generale”. Spianò il quotidiano “Alto Adige” sulla scrivania, segno che la conversazione era terminata e che i ragazzi potevano mettersi al lavoro.

Johann Mair arrivò verso le dieci. Era un ventenne allampanato con i capelli irti e un’aria da apprendista stregone. Disse che abitava davanti al passo carraio della caserma, e quindi cenava in famiglia tutte le sere, il sabato e i giorni festivi. Andrea lo trovò subito simpatico, lo mise a proprio agio mostrandogli i locali del Presidio: l’anticamera, che, con divano e poltrone, fungeva da sala d’attesa per eventuali ospiti; l’ufficio del maresciallo, con il telefono da usare per comunicare con l’esterno; l’ufficio degli scritturali, con due scrivanie, due macchine per scrivere e due telefoni per comunicare con i numeri interni; la sala degli archivi, con i classificatori di metallo, il ciclostile e la macchina tritadocumenti; quello che era stato il gabinetto medico, quando le visite di controllo erano di competenza presidiaria, e ora era una sorta di ripostiglio con un lettino da ambulatorio; il bagno. Quei locali un tempo lontano erano stati il circolo sottufficiali.
Dossi, che aveva battuto a macchina, ricopiando dalla vecchia circolare, l’ordine per il prelievo di sangue obbligatorio per il congedo del 3° scaglione ‘88, mostrò al nuovo arrivato l’uso del ciclostile: “Molto bene” pensò Andrea, “in fondo era Dossi che doveva lavorare con Mair, lui ormai era praticamente un ”borghese”.


 

Alla mia scrivania

sabato 15 settembre 2012

Lettera non spedita (VII)

 

Carissima P.,
            una collana di luci stasera adorna i portici, vestendoli in modo naturale come se ancora ci fossero i lampionai che passano al tramonto. Questa sera non ho voglia di rincasare: voglio solo restare fuori, vagabondare per le strade senza altra meta che i miei pensieri. Ho deciso di dare un taglio al passato e le forbici passano impietose sulla mia timidezza e sulle mie paure: ho deciso di lasciarti andare…

Ma sulla sponda del fiume ho trovato il tuo ricordo, le tue mani affusolate, i tuoi occhi bruni, i tuoi capelli lunghi sciolti sulle spalle, i tuoi seni piccoli da tenere nelle mani, il tuo sorriso, le tue gambe, belle, che gli uomini per strada si voltano a guardare, tu che non porti mai i calzoni e ti veli con i collant. E adesso non sono tanto più sicuro di voler cambiare perché sei tu la cosa più bella che ho avuto dalla vita, quel nostro amore fatto di sole e di mare, quel nostro amore d'estate. Mi siedo al tavolino di un caffè all'aperto e nella birra ritrovo ancora te: non so se amavi più me o quella mia goffa timidezza che aveva bisogno della tua esuberante impudenza.

Sì, d'accordo, lo so: amavi me, non ti adombrare, è stato stupido da parte mia pensare che tu volessi stare con me per essere una madre più che un'amante. D'accordo. E anche adesso non sai quanta fatica mi costi scrivere questa lettera per te, non sai quanta nostalgia arrechi il ricordare i giorni felici con te. E se il foglio è un po' bagnato, non è birra: sono le lacrime che ho versato pensando alle nostre sere, pensando a quel nostro addio di settembre. Ora ho deciso: non ti cercherò più, ma non ti dimenticherò. Sappi che ti amo.

Nessuna donna potrà dire «Sono stata amata»
più di quanto io ti ho amata.
CATULLO, Carme 87 


Merano, 19 marzo 1989

 

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ELABORAZIONE GRAFICA © DANIELE RIVA

sabato 1 settembre 2012

Ex alunni

 

“Il mio sogno è nutrito d’abbandono, di rimpianto”  diciamo con Gozzano io e Patrizio camminando sotto il pergolato di un’antica glicine che c’era anche allora. Non amiamo che il passato, ciò che è irrimediabilmente passato, non come Daniele B. che entra nella vita con le sue chiacchiere e la fa sua come le tante sue avventure. Ha appena finito di raccontarci dell’estate trascorsa in Thailandia, di come a Phuket fuori dai locali anziché i buttafuori ci siano i “buttadentro” – gli occhi gli luccicavano a questa battuta, forse risentiva in bocca il sapore strano della birra di là, rivedeva il bancone, le donne facili. Poi è corso via, a prendere la moglie dai suoceri, promettendo di tornare.

“Qui c’era il muro” dice Patrizio toccando con la mano aperta un punto invisibile nell’aria. E lentamente percorriamo il viale erboso, dove crescono i funghi, dirigendoci verso la cappella della Vergine, restaurata. Sostiamo lì davanti e notiamo quante case siano spuntate da allora nella pianura che si estende oltre i campetti da calcio - come quei funghi sotto il pergolato - persino una palestra. E tutti conosciamo il grande centro commerciale che a un chilometro da qui allarga i suoi tentacoli con svincoli e parcheggi.

“Tutto è irrimediabilmente perduto” dico, forse con l’amarezza dei miei anni. E ricordiamo le file ordinate, le punizioni, i compagni più turbolenti, il refettorio con le tovaglie a quadretti e i bicchieri Duralex e i bottiglioni pieni di acqua del rubinetto, le battaglie di calcio sul campo in sabbia circondato dai pioppi, che sembrano più piccoli adesso, paragonati alla nostra corporatura di uomini.

È lì, sul campo, che ci raggiunge Daniele B. con la moglie e la figlia. Ricordiamo i posti in classe, l’insegnante d’inglese, altri professori, i loro soprannomi: “Lucertola”, “Balena”, la “Sbrocca”. Daniele B. è perplesso, non sa se fermarsi a cena con noi, poi si decide. Forse anche lui, in fondo, ama il passato, come una donna che non ha mai saputo conquistare.

 

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sabato 25 agosto 2012

Pinot bianco di Ravenna


Oggi in tavola c’è un Pinot bianco: l’ho appena tolto dal frigorifero e cominciano già a formarsi goccioline di condensa. Prendo il cavatappi e lo stappo, mi verso un bicchiere in attesa che gli spaghetti siano cotti. Buono, però… Leggo l’etichetta: Pinot bianco di Ravenna…

La memoria ha uno strano modo di funzionare: mi sa che è una specie di enorme magazzino dove sono ammassate le migliaia e migliaia di ricordi ed emozioni che abbiamo raccolto durante la nostra vita. Ma non ha un suo metodo scientifico nel recuperarli, non c’è una lista di controllo su cui spuntarli, forse funziona come la fase random di un computer, in maniera del tutto aleatoria. O forse ancora ci sono delle particolari inconsce sensazioni o aromi o gusti o fisicità ignote che interagiscono e fanno sì che un determinato ricordo si presenti in un determinato momento. Perché non è la prima volta che leggo il nome di Ravenna da allora ma è soltanto adesso che la memoria ha pescato questo ricordo associandolo all’etichetta di questo Pinot bianco.

…e torno con la mente ad un mattino d’aprile di tanto tempo fa. Eravamo in gita scolastica, in prima liceo classico – non avevo dunque ancora diciassette anni – e con il mio inseparabile compagno di banco Luca conoscemmo due ragazze in centro, dalle parti del Duomo. Erano sedute fuori da un negozio che vendeva pizze e focacce e ridevano come matte. Ci sedemmo con loro sui gradini, bevendo Coca-Cola dalle lattine che avevamo comprato. Ci dissero di aver marinato la scuola con un termine diverso da quello che usavamo noi – “impiccare” – e che purtroppo non sono in grado di ricordare, comunque dovettero spiegarci cosa significava e probabilmente sembrammo anche due imbranati. Comunque, parlammo un po’ di noi, i soliti discorsi che si fanno tra ragazzi e ragazze: la scuola, la musica, gli amori. Finimmo a passeggiare per le strade del centro con la mano nella mano, ma non trovammo il coraggio di baciarle. Non so come – la memoria ha cancellato o spostato altrove nel suo immenso e disordinato magazzino questo dato – finì che ci salutammo.

Un sorso di Pinot bianco di Ravenna per me oggi è stato la madeleinette che Proust inzuppò nel tè di tiglio, la fonte del ricordo di un giorno ormai lontano in cui non feci che pensare a una ragazza bionda che non avevo baciato.


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FOTOGRAFIA © RAVENNA24ORE

sabato 18 agosto 2012

Venerdì notte

 

da “Nighthawks” di Edward Hopper

La rossa si chiama Samantha e adora i papaveri. Non è un caso che indossi un vestito scarlatto. Lavora come segretaria in un ufficio della Fifth Avenue. Una volta che ero da quelle parti l’ho vista scendere da un autobus e infilare il portone in stile Liberty inseguita dagli sguardi di una dozzina di uomini di ogni età. Due ragazzi stavano commentando qualcosa a proposito delle sue capacità amatorie. Mocciosi… però avevano certo ragione: Samantha ha quel modo di agitare il bacino che è una poesia d’amore, un invito, una proposta. Poi… poi le cose stanno come stanno e non c’è verso.

L’uomo alla sua destra è Timothy McIllroy, il suo capo. Ha 42 anni ed è sposato con Mary Beth, una grassa casalinga dell’Idaho. Chiaro che non si faccia vedere per locali con lei. Però è una pasta d’uomo, appena può passa alla Congregazione per dare una mano o almeno un sostegno economico a padre O’Leary. Guardatelo come liscia nervosamente il bancone di mogano: sa che a casa lo aspetta una scenata con Mary Beth, sa che annuserà il profumo intenso di Samantha, gli rimane sempre sull’abito. E riuscirà a convincerla solo dopo un diluvio di parole.

L’uomo solo seduto all’altro lato del bancone si chiama Peter Mahoney, è un commesso viaggiatore di spazzole e ogni venerdì è qui a New York, dice che è di Boston ma l’accento del sud che ogni tanto spunta fuori lo tradisce. Probabilmente quel suo parlare strascicato che corregge subito è retaggio di un’infanzia trascorsa in Alabama o in Georgia. Comunque sia, ogni settimana dell’anno lui è qui, di venerdì.

Tra poco Timothy McIllroy pagherà i bourbon e saluterà Samantha Camminerà lento per le strade buie e lentamente guiderà verso casa. Parcheggerà la Ford T sul vialetto e affronterà l’ennesima discussione con Mary Beth. Quando sarà uscito, Peter e Samantha aspetteranno ancora cinque minuti e poi se ne andranno via a braccetto, come fanno ogni venerdì, verso il motel dove lui alloggia.

“E tu, tu come le sai tutte queste cose?” sento già da un po’ le vostre voci pronte a pormi questa domanda – morite dalla voglia, vi strozzate quasi dalla curiosità. Ma, perbacco, signori! Ma, caspita, signore! Io, io so tutto, io sono il barista…

 

EDWARD HOPPER, “NIGHTHAWKS”

sabato 4 agosto 2012

Vent’anni


I calendari generano eventi: io di te divenni consapevole un pomeriggio afoso quanto questo. Non ho dimenticato, come vedi: vent’anni di illusioni e compromessi su di noi, ma io non ho dimenticato.

Vent’anni da quel pomeriggio caldo in cui presi coraggio e venni da te - complice un libro, come per gli amanti del famoso quinto canto dantesco. Vent’anni da quel dondolo sul quale la prima volta parlammo di noi - dicesti di un acquazzone improvviso che ti rovinò le scarpe, del tuo viaggio in America: il deserto e i grattacieli, New York e Los Angeles. Di me ti dissi il poco che sapevo, con una timidezza che forse tu amasti: provasti a togliermi dal guscio, bimba curiosa affascinata dal timore.

Mi conducesti per mano - bambino ero, ricordi? - e mi guidasti lungo sere nuove di giochi e di cinema, di mille stelle. Uscivamo e guardavo il cielo terso. “Io e lei” mi dicevo, “Io e lei” esultavo, “Insieme” e già temevo il tempo, studiavo il modo di fermarlo, di essere insieme per sempre, per l’eternità. Se fosse stato un immenso orologio, avrei trovato un lungo chiodo nero da conficcare in mezzo alle lancette come nel cuore di un cruento vampiro.

Camminavo al tuo fianco ed era come se stessi al passo lieve di una dea. Camminavo su petali di rosa, su morbidi cuscini, sulla sabbia. E il tuo sorriso, che mi innamorò! Davanti allo specchio lo ricreavo ed era come essere te, essere con te. Ho riprovato: non mi viene più… forse i muscoli induriti o chissà cos’altro, forse questa gioventù che finisce; non voglio - no: non posso - ammettere che l’ho dimenticato: se chiudo gli occhi, ancora lo rivedo.

Così non mi resta altro da fare che guardare l’orizzonte indefinito e perdermi nel cielo senza fine inseguendo il ricordo di una donna, l’unica amata - perduta per sempre. E ritornare alle consuete cose, lo svago di un romanzo, di uno schermo. Ma tu continui a chiamarmi, dolcissima. E corro a dedicarti una poesia. Così ogni giorno, vent’anni, ogni giorno o quasi della settimana. Scrivo da prima di te, ma è da te che ho preso forza e vigore, da te nutrimento.

 

 

JACK VETTRIANO, “THE INNOCENTS II”

sabato 21 luglio 2012

Lettera non spedita (VI)

 

Carissima P.,

il patto che un giorno noi due stringemmo, o forse è meglio dire il patto che io solo strinsi, sarà ancora valido? Oppure sarà sciolto come si scioglie la cintura di un kimono che ti lascia nuda scivolandoti ai piedi?

Riflettici: nuda tu come la verità, e perdona la metafora un po’ impudica e certo impertinente. Pensa e ripensa la tua vita, cara amica, pensa che la tua rosa vive ancora nel mio vaso, che ogni giorno la curo e la annaffio, e anche questa è una metafora. Chiediti se hai onorato quel patto e, se ancora non lo hai fatto, domandati se sei in tempo per saldare il debito.

Vorrei che questa lettera sollevasse il telo posto sul ricordo, sul passato, come quegli stracci che si posano sui divani, sui tavoli, sulle sedie di una casa che rimane a lungo disabitata per proteggerli dalla polvere.

Confermami, amica mia, che quel patto tra di noi è esistito, che non si è trattato di un sogno che ho fatto in una notte solitaria.

 

JACK VETTRIANO, “IN THOUGHTS OF YOU”

sabato 14 luglio 2012

Les jours d’antan


“Dov’è la vita che abbiamo persa vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo persa nel sapere? Dov’è il sapere che  abbiamo perso mettendo insieme nozioni?” THOMAS STEARNS ELIOT
Dove sono i giorni di ieri? Che ne è stato della scampagnata con la tovaglia a quadri, il cestino da picnic posato sopra, la bottiglia di vino bianco e l’anguria messi in fresco nell’acqua del torrente? Che ne è stato dei pomeriggi di spiaggia trascorsi a raccontarsi, a giocare a bocce, a riempire le caselle bianche della Settimana Enigmistica? Che ne è stato della luna di burro che si sdoppiava nel mare mentre la nostra ombra diventava tutt’uno con quella di un’altra persona? Che ne è stato dell’amore che abbiamo coltivato con tanta passione, che abbiamo fatto sbocciare e fiorire? E dei giorni di studio e di lavoro, messi in fila come un lunghissimo rosario?
E ancora: che ne è stato di ciò che abbiamo perso, delle occasioni fuggite, delle strade non prese? Che cosa sarebbe successo se quel giorno avessimo detto sì oppure no, se avessimo temporeggiato, se fossimo andati in un posto invece che in un altro, se avessimo incontrato una persona invece di un’altra?
E dov’è l’ingenuità dell’infanzia? Che ne è stato di quella dolce ignoranza che aveva in sé la sua saggezza? Eravamo sacchi vuoti da riempire ma avevamo già un’anima, una nostra capacità di distinguere bene e male, una morale, un’etica. In quei sacchi abbiamo messo molta farina, e ora non sappiamo più che cosa c’era sul fondo.
 

SPENCER COLEMAN, “BOTTOMS UP!”




sabato 7 luglio 2012

Campioni del mondo!

 

Sono trascorsi trent’anni! È da questo che uno capisce di essere invecchiato, di avere ormai lasciato alle spalle la gioventù. Trent’anni da quel delirio collettivo dell’11 luglio 1982, la notte in cui Nando Martellini commosse fino alle lacrime milioni e milioni di italiani radunati davanti ai televisori quando pronunciò con enfasi il triplice “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!”. L’Italia che era uscita distrutta da quasi tutte le competizioni calcistiche del dopoguerra – salvo l’Europeo vinto in casa nel 1968 - tornava sul tetto del mondo 44 anni dopo il secondo trionfo della squadra di Pozzo. Subito dopo il fischio finale cominciò la festa per le strade con uno sventolio di tricolori come non s’era mai visto e tuffi nelle fontane.

Tutto era cominciato in realtà quattro anni prima, quando Enzo Bearzot, il ct, costruì una squadra capace di battere l’Argentina a casa sua ed arrivare quarta dopo aver perso la semifinale con l’Olanda per un paio di tiri da oltre 30 metri. L’ossatura c’era, Bearzot ci innestò giovani di belle speranze come il ventunenne Antonio Cabrini e il diciannovenne Beppe Bergomi, e quel Paolo Rossi che aveva scontato una lunga squalifica per il primo calcioscommesse del 1980. La nazionale italiana passò il girone eliminatorio con affanno, tre pareggi e molta fortuna, grazie a un solo gol segnato in più del Camerun. Ci toccò il girone impossibile con l’Argentina di Maradona e il Brasile di Zico. Il contropiede, le marcature rigide e lo stellone ci consentirono di abbattere 2-1 i gauchos e 3-2 i carioca. In quella partita meravigliosa in cui il Brasile, cui bastava il pareggio, tentò comunque di vincere secondo suo costume e poi perse, si sbloccò Paolo Rossi, che siglò tutti e tre i gol italiani. Altri due li infilò alla Polonia in semifinale e un altro alla Germania in finale, dopo che Cabrini aveva fallito un rigore e prima delle reti di Marco Tardelli – il celebre “urlo” quasi alla Munch  – e Alessandro Altobelli. Il gol di Altobelli tra l’altro consentì al presidente Pertini, che era allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, di dire a re Juan Carlos che era seduto accanto a lui “Non ci prendono più!” con un gesto della mano tipicamente italiano. Era la squadra del compianto libero Gaetano Scirea, del mastino Claudio Gentile, del mediano Gabriele Oriali, di Fulvio Collovati e Giancarlo Antognoni, di Ciccio Graziani, del motorino Bruno Conti.

Dino Zoff, il portiere e capitano, sollevò la Coppa del Mondo al cielo di Madrid e quell’immagine divenne il francobollo disegnato da Renato Guttuso, celebrativo della vittoria, dell’enorme emozione che era stata regalata agli italiani, che venivano dagli anni di piombo e avevano un’inflazione galoppante a due cifre. Stava per aprirsi la stagione della Milano da bere, dell’edonismo reaganiano, dell’illusione di Wall Street, delle giacche colorate. Quello è il Mondiale che sento mio, quello vissuto da ragazzo innamorato, quello che trent’anni fa sotto una luna fantastica in una notte di grilli celebrai per le strade con la mia bandiera tricolore e i miei diciott’anni. Da un televisore arrivava la voce di Giuni Russo che cantava Un’estate al mare. Com’era bella la luna nelle fontane! Com’era bella la vita!

 

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sabato 30 giugno 2012

Troppi anni

 

Tempo ne è passato. Tanto tempo. Il giorno è questo, solo nella cifra, solo nel mese. Era venerdì allora, oggi è lunedì. È cambiato il secolo, il secondo millennio è scivolato nel terzo. È crollato il muro di Berlino, sono state abbattute dai terroristi le Torri Gemelle di New York, c’è un altro papa, c’è un altro presidente della Repubblica, negli Stati Uniti un nero è diventato presidente. Sono state combattute guerre in Afghanistan e in Iraq, si è dissolto l’impero sovietico, il vento della democrazia ha cacciato l’orso russo dalla Polonia, dall’Ungheria, dalla Romania. La Cecoslovacchia si è divisa, così anche la Jugoslavia – e le sirene della guerra hanno suonato per la prima volta in Europa dopo il 1945 - la Germania si è unificata. La tecnologia ha proposto oggetti inimmaginabili, televisori dallo schermo ultrapiatto, computer e telefoni portatili, tavolette e smartphone con i quali collegarti a Internet dovunque. Ah, Internet non c’era…

Tempo ne è passato davvero tanto, acqua sotto i ponti ha eroso le arcate, le sponde, ha levigato sassi sul fondale. Gente è nata, altra se ne è andata. I bambini sono cresciuti, gli adulti sono invecchiati. Fogli di carta sono ingialliti, pagine di libri sfarinano, le rilegature cedono. Polvere si è posata su case e mobili, arredi sono stati sostituiti, oggetti sono stati rimodernati, facciate intonacate, pareti ridipinte. Vestiti, maglie e camicie sono stati usati e usurati, gettati, dati alla Caritas, usati come stracci per pulire i vetri. Altri sono stati acquistati nelle boutique del centro, nei nuovi franchising dei centri commerciali. Automobili hanno percorso migliaia e migliaia di chilometri, sono state demolite, rottamate, vendute, date in cambio di un’auto nuova e questa a sua volta demolita, rottamata, venduta, data in cambio… e altre e altre ancora.

Ma adesso, ora che il mio orologio – un altro, non il Wyler Vetta che avevo quel giorno – segna le due e un quarto, adesso io sto pensando a te, a quel pomeriggio afoso, tanto che le nuvole si appiccicavano addosso. Sto pensando che tutto cominciò quando mi sedetti al tuo fianco e cominciai a parlare. Tu raccontavi, io raccontavo. Tu mi guardavi, io ti bevevo con gli occhi. La matita verde con cui riempimmo cruciverba chissà dove sarà finita. E i miei jeans e la mia maglietta blu a righe gialle, e il tuo vestito azzurro, le tue ciabattine bianche, le mie espadrillas chiare… Tanti anni sono passati. Troppi anni. Ma è come se non fossero mai trascorsi se rivedo il tuo sorriso nella penombra dello specchio. Fu quel sorriso a farmi innamorare…

 

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HENRI CARTIER-BRESSON, “SIDEWALK CAFÉ”

sabato 23 giugno 2012

Un sogno?

 

Le immagini  si susseguivano  instancabili come una fila interminabile di formiche: si presentavano agli occhi chiusi sotto forma di spezzoni cinematografici o di fotogrammi o di luminose fotografie. Un sogno? O la fusione di pensieri e illusioni con l'immaginario? Mathilda seduta sulla riva del mare o di un lago, assorta, il bel corpo magro su uno scoglio ruvido. “Prima che all'amore voglio pensare al sesso” aveva detto. Ma era lei che baciava lo specchio? Era lei che, presi i vestiti, usciva nuda nella luce rossa tenendo il fagotto sotto il braccio?

Sei troppo bella e la tua bellezza urla triste: guardate le modelle longilinee e senza seno, guardate i loro visi, le labbra: non sorridono mai. Desideravano quello che non potevano avere: poi l’hanno avuto e ora desiderano quello che non possono avere e che forse avevano allora e per loro il giorno è grigio. Mathilda si rotola nuda sulla sabbia e sorride, anzi ride, ride come una bambina, poi si alza e porge il viso al sole, porge tutto il suo corpo come a un dio perché ne faccia ciò che vuole.
     
Vorrei che l'anima mia tutta    
entrasse nel tuo corpo minuto  
ed essere io il tuo pensiero  
ed essere io la tua bianca veste.
*
 
“Più dea che donna” aveva detto e lei non si smentiva nell'ultimo tramonto, Venere di Cipro con quel cappello in testa e le gambe nude si era poi seduta e contemplava la sabbia, calcolava il vento e il fluire del tempo; si rivelava donna sorridendo, animaletto docile e triste che chiedeva carezze.  

Ed io penetrerò intanto            
nel tuo corpo dolce e debole            
e sarò, donna, te stessa             
dimorando per sempre in te.
*

Mathilda ora ti capisco, ora ti so tutta e mi sembra che sia stato sempre così; ora ti comprendo, sento i tuoi dolori come se fossero i miei, ora che non ci sei, ora che non so più dove trovarti.                             

(9 settembre 1991)

 

BEN ALLEN, “SHELTER FOR THE SUN”

sabato 16 giugno 2012

Lo specchio


Stephen Waterhouse entra nella sua camera da letto: dalla finestra socchiusa si infila nella stanza una lama di luce calda, combinazione del sole d’estate e del riflesso sulle pareti tinte di giallo del palazzo di fronte. All’improvviso si ferma, colpito dall’immagine che il grande specchio riflette, nel semibuio della penombra: le lunghe tende di mussola, veli leggeri attraverso i quali traspare un tratto della balaustrata di pietra del balcone, la poltrona con appoggiata una mezza dozzina di libri, il grande letto con le lenzuola bianche. E sul letto, seduta con le ginocchia strette e i capelli sciolti, Fiona. Il veleno e miele di Fiona, amata con una follia degna del miglior Catullo e svanita con la perfidia della peggior Lesbia.

Stephen si avvicina e l’immagine nello specchio naturalmente svanisce. Non le tende candide e profumate di bucato, non la vecchia balaustra del balcone, non la poltrona con i libri, non il letto dalle lenzuola disfatte. Solo Fiona, Solo la sua immagine nuda che si era materializzata per l’abitudine del ricordo, per il desiderio di un sogno, per il mai sopito amore che ancora lo tormenta.

La dolcezza che contro ogni ragione Stephen pregustava – l’amore non conosce ragioni – si è immediatamente trasformata in un amaro fiele, in un succo aspro che più che la bocca dello stomaco gli cinge i pensieri. Fiona è un’ombra. Fiona rimane un’ombra nella sua vita, un fantasma che si aggira qua e là nei giorni. Fiona è lo spettro della sua voglia d’amore e lo fa sentire stupido ogni volta che cade i quei tranelli, in quei miraggi come un carovaniere nel deserto attratto da una morgana. Aveva creduto alla luna, Stephen, l’aveva intravista per un istante nel cilindro del pozzo e, accecato dalla sua passione, aveva creduto di poter allungare una mano e afferrarla.

È a questo che sta pensando Stephen mentre si osserva nello specchio: un uomo sui trentacinque anni vestito con un elegante completo color fumo di Londra, un’impeccabile camicia bianca e una maschera di malinconia.

  Morisot
BERTHE MORISOT, “DONNA DAVANTI ALLO SPECCHIO”

sabato 9 giugno 2012

Sono nato in un laboratorio di maglieria

 

Sono nato in un laboratorio di maglieria… No, in realtà sono venuto alla luce di questo mondo in un ospedale di Bergamo, ma è come se fossi nato in quel laboratorio di maglieria dove i miei nonni e mia mamma sgobbavano dalla mattina alla sera – se dico che erano gli anni del boom economico scoprirete la mia età, ma io non sono vanitoso e lo dico: i ruggenti Sessanta finivano e si avviavano sulla china della crisi del petrolio e degli anni di piombo. E io ero lì, in quel laboratorio, nel mio recinto – ora li chiamano box, forse i pediatri pensano addirittura che sono dei lager in miniatura – io invece mi divertivo, con i miei giochi e le coccole della dozzina di operaie che si portavano il cibo da casa e passavano la pausa pranzo nel cucinino, si scaldavano anche qualcosa, sebbene io ricordi in modo vivido gli incarti oleati con la coppa e il salame.

Giocavo con le costruzioni di legno che tutti i bambini di un anno ancora adesso usano, poi con le macchinine, poi sarò anche uscito da quel recinto, una volta imparato a camminare. Comunque, in breve ho appreso i nomi di quelle macchine e le funzioni – e ogni operaia aveva il suo compito come è sempre stato nel mondo industrializzato, nessuna interinale, nessun co.co.co. Contratti seri. E contabilità sempre in ordine: a quella pensava mio papà, che di giorno lavorava in una multinazionale a Milano e la sera, sorbitosi il viaggio in treno, cenava e si metteva a studiare per diventare ragioniere e intanto batteva a macchina le fatture e riempiva i registri con la sua calligrafia ordinata.

Dicevo delle macchine. Cosa serviva? Dunque: la 8 e la 12, che sfornavano i teli per le maglie: le operaie spostavano il telaio da destra a sinistra e viceversa e a ogni passata il telo si allungava impercettibilmente, ma in breve arrivava alla misura voluta – non è così semplice: bisognava anche controllare gli aghi, spesso si rompevano e andavano sostituiti; c’era da oliare gli ingranaggi, c’erano dei pesi da attaccare ai teli; c’erano i coni di lana o cotone da tenere d’occhio. Poi arrivarono dei mastodonti grigi che lavoravano da soli: le Stoll, con un sistema di lettura a schede perforate che consentiva anche disegni jacquard. E naturalmente, come avrete già capito, il numero di operaie diminuì: una ragazza che si sposava o andava in maternità decideva di non lavorare più e dedicarsi alla famiglia e non veniva sostituita. Lo so, è triste, ma è la legge del mercato. Come è triste che i soldi per un’altra macchina da maglieria, la Coppo, tutta elettronica e smalto panna, andarono praticamente perduti perché nel frattempo era intervenuta una crisi di settore e quell’investimento risultò ormai superato. Mi piangeva il cuore quando la portarono via – avrò avuto già vent’anni e l’attività era ormai alla fine.

Ma proseguiamo nella visita: i teli venivano adagiati su lunghi tavoli dove la magliaia o “maestra” li segnava con il gesso bianco e li tagliava con le lunghe forbici. Il compito della magliaia era quello di mia mamma, che aveva già lavorato in gioventù, a 14 anni, mica come adesso! in un altro laboratorio. I teli tagliati passavano alle macchine per cucire, dove diventavano effettivamente maglie e dove venivano aggiunta la maglia rasata delle maniche e del bordo inferiore e rifinite, se c’erano, le asole o gli occhielli. Un’altra macchina, circolare, serviva per attaccare i colli; e qui c’era da sbizzarrirsi: a V, a lupetto, a lupo di mare, alla coreana, a girocollo, a barchetta, alla Serafino – sì, come il pastore di Celentano. Adesso il prodotto era finito: ci si attaccavano i bottoni se era un gilè o una Serafino e il capo veniva stirato da un’altra macchina, a vapore. Ah, se la avessi adesso invece del ferro! Come mi piacevano quegli sbuffi bianchi.. Qui venivano anche controllati eventuali difetti, se c’erano delle macchie venivano tolte con uno smacchiatore del quale ricordo ancora il nome, il Pludtach. Il prodotto finito veniva imbustato in un sacchetto trasparente con il marchio del maglificio: se l’ordine era di un grossista finiva in uno scatolone o veniva legato in un pacco: quante volte ho accompagnato mio nonno a Milano, a Bergamo, a Monza o a Lecco per consegnarli! Andavamo con la sua Giulia e qualche volta persino in treno. Se invece l’ordine era di un privato, che era venuto nel nostro punto di vendita – un piccolo locale dove c’era anche lo studio in cui mio papà premeva i tasti di una calcolatrice e ne usciva curiosamente un lungo foglio bianco, un serpente di carta ai miei occhi di bambino – allora lo si portava lì in attesa che il cliente lo venisse a ritirare.

Cosa si può dire di allora? Che erano altri tempi, che il lavoro si trovava con estrema facilità, che un lavoro non era mai troppo umile, che ci si accontentava di poco. Che ricordo con molto piacere i rapporti umani che si venivano a creare: ogni anno le operaie venivano portate in gita in qualche località turistica, erano tutte al mio battesimo, invitavano al matrimonio i miei nonni, ancora anni dopo la chiusura del laboratorio ci venivano a trovare… Ce n’è una che incontro talvolta al supermercato e ancora mi saluta e mi chiede come vadano le cose, come stiano tutti… e sono almeno 40 anni che non lavora più.

E poi, poi che cosa è successo? Che i miei nonni sono andati in pensione come artigiani prendendo tra l’altro una miseria – mia nonna si è lamentata di questo fino all’ultimo giorno dei suoi 94 anni – e hanno ceduto l’attività per qualche anno a mia madre. Ma i tempi erano cambiati, le difficoltà imprenditoriali erano sempre più alte, cominciava la concorrenza cinese a prezzi più contenuti. Insomma, non ci stavano dentro più, e nel 1986, dopo aver patito per un paio d’anni l’umiliazione dei lavori su commissione per altre aziende, il glorioso maglificio nato nel 1950 e presente più volte al Comis, la fiera milanese di settore, chiuse i battenti. Ma è sempre nella mia memoria e anche nel mio cuore, visto che sto scrivendo dove un tempo c’era il bobinatoio, l’aggeggio che prendeva le matasse di lana e le trasformava in coni o rocche da utilizzare sulle macchine: infatti, con un’operazione a metà tra la nostalgia e il vintage, quasi vent’anni fa ho trasformato il laboratorio nel mio studio: una specie di loft post-industriale dove mi sento davvero a casa…

 

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2011

scritto per TIMU – Le vie del lavoro

sabato 12 maggio 2012

Un vecchio disco

 

Un vecchio disco che ascoltavamo insieme, il tuo preferito, mi ha ricordato te dopo tanto tempo. Ho provato un po' di rabbia per averti perduta ma il rimpianto, la malinconia hanno soppiantato in breve ogni sentimento. L'emozione del ricordo ha prevalso su tutto: questo ricordo che è rifugio inespugnabile, irresistibile, non c'è assedio che lo logori, ma è anche carcere, prigione, incasellamento dei sogni e delle inquietudini.

Ricordo: dicevi "Senza di te come farò?" ed era l'ultima sera, avevi bevuto un po' e faticavi a reggerti in piedi; come ti stringevi a me! Era l'ultima sera: mi parlavi del futuro, dei tuoi progetti. Non ce ne rendevamo conto allora ma parlavi di giorni senza me... Chissà se ce l'hai fatta, chissà se hai realizzato i tuoi sogni, chissà se hai trovato qualcuno sulla tua strada pronto a sorreggerti come sono stato pronto io quella sera... Era l'ultima sera.

Ricordo altre sere: quando il sole arrossava e cadeva dietro i pini come una moneta di rame inserita con cautela da un bambino nella fessura del salvadanaio e tu raccoglievi pugni di sabbia e poi la lasciavi filtrare piano per vedere dove soffiasse il vento. Dicevi: "Il tempo non esiste" e una lacrima rigava il tuo bel viso. "Il tempo siamo noi" ti consolavo "anche se fossimo lontani, divisi..." Forse presagivo, forse straparlavo.

E un'altra sera, quel grande luna-park pieno di luci e rumori, quando volesti salire  sull'ottovolante e scendesti col capogiro: ti trattai come una bambina, ti comperai lo zucchero filato e il bastoncino colorato, ti regalai un orsetto di peluche e tu eri dolce... mi baciasti con trasporto e non ci accorgemmo neanche della pioggia che improvvisamente cominciò a cadere; tornammo fradici, abbracciati sotto il temporale.

Ricordo le tue pudiche nudità e come Afrodite uscivi dal mare di mezzanotte, lasciavi che ti guardassi, eri fiera del tuo corpo liscio, ancheggiavi per scherzo e, uscita, volesti che ti asciugassi, come uno schiavo. O ancora nel sole del pomeriggio a  seno nudo annaffiavi i gerani sul balcone, io restavo a scrivere poesie sdraiato sul letto e paragonavo a colline i tuoi seni tondi. Tu poi rientravi e dicevi: "Sono una sirena, sono la tua sirena, e tu sei il mio Ulisse senza i tappi di cera nelle orecchie".

E poi ricordo quella volta che seduta sul divano parlavi dei tuoi viaggi, dicevi di Parigi e della luce che cadeva sui boulevards, dei colori di Barcellona, degli aromi per le strade di Atene. Parlavi della Liguria all'alba, delle brioches appena sfornate, raccontavi  dei dirupi sul mare, delle scogliere bianche, delle notti folli e mostravi fotografie come se fossero scontrini ed io ti ascoltavo e ti guardavo come si guarda una dea…

    La musica è finita. Tu non ci sei, sono quasi dieci anni ormai che tutto è finito senza finire, chissà perché... Ma io continuo a ricordare.  

          
(Novembre 1991)

 

JACK VETTRIANO, “ANNIVERSARY WALTZ”

 

Matt Bianco - Whose side are you on?

sabato 28 aprile 2012

Maggio


Ecco maggio. Avanza il mese delle rose, il mese del gonfalon selvaggio. E riporta i suoi ricordi, li confeziona anno dopo anno come per una festa, li impacchetta, li avvolge con il nastro dorato delle emozioni, qua e là lo screzia con riflessi di nostalgia. E se i ricordi sbiadiscono, l’immaginazione, il sogno tante volte cullato ad occhi aperti è perfettamente in grado di supplire.
 
Maggio. Le bancarelle che vendevano frutta in Piazza del Grano a Merano: mele lucide e rosse, schierate in fila come una piccola armata nelle cassette di legno chiaro, sull’altro lato del balcone la controparte verde. Poi fragole e ciliegie, il giallo dei limoni, le ultime arance della stagione, i primi meloni, le banane. Reste d’agli e mazzi di peperoncini pendevano dalla sbarra come uccelli in un carniere. Nel piazzale, le volanti della polizia davanti al commissariato attendevano chiamate, gli agenti fumavano calmi, dalle portiere dischiuse giungeva la voce della radio che gracchiava stancamente. La luce del tramonto scendeva nella conca avviluppando i palazzi del centro con l’ultimo oro del giorno. La fontana scrosciava riversando acqua e pensieri in armonia con le arcate. Vagabondavamo con la nostra breve libertà ficcata nelle tasche insieme al tesserino e a tanta voglia di andare via. Finivamo sempre dentro un bar a bere una birra chiara e a mangiare un panino con lo speck e brie per poi tornare lenti verso la caserma attraversando tutta la città, guardando le ragazze lungo la Passeggiata, spegnendo la nostra sete nella luna che si specchiava a pezzi nelle acque ruvide del Passirio.
 
Maggio. Il giuramento nell’ippodromo di Maia con la lanugine dei pioppi discesa come una nevicata, i guanti bianchi che reggevano il fucile, un vecchio Garand, le mollettiere per chiudere i pantaloni della divisa all’altezza delle pedule, il grido elevato al cielo che sapeva di tigli e di ligustri ed era azzurro come un’ora di libertà. E le nuvole d’oro dietro la palazzina Liberty della stazione, i treni che viaggiavano verso Bolzano, verso Malles mentre seduto sulla panchina del piazzale intingevo patatine nella maionese tenendo in una mano il cartoccio e nell’altra la malinconia. Non ho mai più visto una luce così, non ho mai visto quella tinta zecchino – come se fosse un miracolo riservato a quel tempo, a quel giorno di maggio, a me com’ero quella sera con il giubbino di jeans e la faccia sperduta sotto i capelli rasati quasi a zero.
 
Maggio. Quel torneo serale di calcio con le nuvole d’alabastro dietro gli alberi, sospese come ovatta ma simili ai vetri del Mausoleo di Galla Placidia che avevo visto qualche giorno prima a Ravenna. Era il 1981. E per la prima volta vidi lei con i jeans e la camicetta seduta a guardare la partita. Mi innamorai come ci si innamora a diciassette anni, con il cuore in una mano e la testa leggera, capace di qualsiasi follia. Sembrava una madonna fiorentina, una bellezza rinascimentale. Fu la donna che mi aiutò a superare l’ansia, a vincere la vertigine dell’abisso: le sue parole, la sua figura mi servirono per superare l’ostacolo.
 
Ecco maggio. Mi ritrova più lontano di un anno e più preziosi sono i suoi ricordi.
 
 

sabato 7 aprile 2012

Prima di cena

 

È bello cercare tra i ricordi, riscoprire sensazioni, ritrovare emozioni in un libro, in un oggetto impregnato del nostro passato, di attimi di vita. Ed è dolce la nostalgia che prende in questi momenti davanti a un cassetto o a uno scaffale. Ho ritrovato una sua fotografia, non ricordavo quella sua aria impacciata, mi sembrava di averla sempre vista sicura e decisa. Mi sono detto che sarebbe bello vedersi un po', andare al cinema, al ristorante, ritrovarsi, stare insieme, andare a vedere qualche posto originale. Ma lei ora chissà cosa fa e con chi va...

Amare l'amore come stato di vita certamente è una cosa astratta, ma è bello, tra ricordi e nostalgia, vecchie canzoni e vecchie storie che mi fanno pensare a chi ora vive lontano ma ogni tanto si ricorda di me con qualche rimpianto… Ma no, quel che è stato è stato; in mille cassetti conservo ogni pelle che ho cambiato come un serpente e ogni tanto vado a riguardare. E adesso sono qui che aspetto e che cosa aspetto non lo so. E il tempo passa dietro la finestra, il cielo si fa da grigio azzurro e un pallido sole d'autunno cade sulle foglie gialle. Forse aspetto l'amore. Ma quale amore?

Intanto il tempo passa e la sera scende con i suoi passi di dama, si cambierà d'abito dopo il tramonto. Oggi la sento vicina, amica, quasi mi viene d'amarla, questa sera di ricordi. Apro un altro cassetto: trovo le buste e carta da lettera, francobolli da incollare su quelle buste che non spedirò mai. Guardo l'orologio: ho ancora cinque minuti da dedicare ai rimpianti, alle occasioni perdute che mai più ritorneranno; penso che avrò altre occasioni, ne coglierò qual­cuna, qualcuna la perderò e la sera avrò sempre cinque minuti da dedicare ai rimpianti, prima di cena.

 

(settembre 1989)

 

CATHERINE BEYLER, “SOUVENIRS D’ÉCRITURE”

sabato 31 marzo 2012

Leggendo poesie d’amore

 

Sera dolce di una primavera iniziata da poco: l’aria appena tiepida ha sentore di magnolie e di giacinti, spezie e profumi si mescolano in un effluvio che sa di vita, che sa di nuovo. I peschi hanno affascinanti livree rose, sembrano ballerine in vaporosi tutù, i pruni sono come spose vestite di bianco. Il tramonto ha una dolcezza infinita, sembra non voler mai morire, si dilunga in un crepuscolo che si tinge di lunghe righe tracciate a pastello, di nuvole dipinte con una spugna e gli acquerelli.

Leggo poesie d’amore, seduto sulla sedia da giardino bianca sottratta alla polvere dell’inverno, al suo letargo che mi sembra essere stato lunghissimo, come il mio. La luce si riversa avida sulle pagine, pare quasi voler leggere anch’essa, finché in tempo, fino a che il sole non precipiterà completamente oltre le colline…

Tenui ombre impallidite
oscillano nel luogo
deserto e qualche fiore ne sospira.
I ricordi mi tangono; il passato
abita qui ancora; il luogo intorno
compone un regno pieno di bisbigli…
1

Quante belle parole, quanti settenari, quanti endecasillabi: come biglie iridescenti e levigate, lucide, polite, rilucenti come vetro. Quartina dopo quartina, sonetto dopo sonetto, rima dopo rima avanzo come dentro un labirinto e indosso i panni del poeta: le sue emozioni sono le mie, i suoi passi sono i miei passi. Ci sono donne che ho amato, donne che ho perduto. Ci sono errori e rimpianti, ci sono i languori e la calda fiamma dei sensi, gli abbandoni dei baci, le romanticherie che mi fanno sentire tanto bene.

Vagammo tutto il pomeriggio in cerca
d'un luogo a fare di due vite una.
Rumorosa la vita, adulta, ostile,
minacciava la nostra giovanezza.
Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli,
quanto silenzio sotto questa luna.
2

Sono in armonia con la sera, con quella barchetta di luna che si è levata a oriente tra Giove e Venere e sembra sorridere alle migliaia di amanti che levano gli occhi al cielo teneramente abbracciati. Luna, luna, che non sei neanche mezza, tu sei la mia sola compagnia stasera e assecondi questa brezza leggera che soffia odorosa predisponendo l’animo ai ricordi e alla nostalgia.

Da nulla che ero mi facesti dono
d'essere uno che ti guardava:
e te guardando nella mente me ammiro
e tanto mi piace essere te
che il distacco poco mi duole.
3

Il buio è ormai calato, fatico a leggere alla luce che viene dalla strada. Nella pozza gialla dei lampioni una coppia sta ancora all’abicì dell’amore: sono ragazzi che esplorano il mondo, le risatine nervose di lei, la spavalderia timida di lui… Eravamo così anche noi, tanti anni fa…

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1 Aldo Capasso, Stupore, perché mai

2 Umberto Saba, Ultime cose

3 Libero De Libero, Da nulla che ero

 

KARL SPITZWEG, “READING THE BREVIARY THE EVENING”

sabato 17 marzo 2012

Lettera non spedita (V)

 

Cum ventitabas quo puella ducebat...
CATULLO, Carme VIII   

Carissima P.,
           se ti penso ancora non è per caso, non è certo quello che io credevo essere un'illusione, quel sogno di Gozzano nutrito di rimpianto. Non è per caso che nella mente mi risuonano quelle parole nuove dette tanti anni fa ormai e che tuttavia non pèrdono il loro valore, semmai sono valorizzate dal trascorrere degli anni. E quella tempesta  di dubbi e di emozioni, quel vortice di passioni e di timori che forse troppo frettolosamente noi chiamammo amore mi sollevarono qualcosa dentro, non so, quasi una leva, un interruttore, e da ragazzo fui uomo nel dolore di averti persa.

Quante sere da allora ho passato a rimirare le stelle e la luna in ricordo di quella sera di settembre mai dimenticata. E il ricordo associava alle stelle e alla luna il tuo viso, il tuo corpo, la sabbia umida, le luci dei pescherecci al largo, l'aria frizzante... Eri tu la donna giusta, ora lo posso dire, ora che tutti me l'hanno detto senza scrupolo di ferirmi. Eri tu la mia rosa non colta. L'ho capito da solo quando apparivi improvvisa nei miei sogni, evocata da un pensiero inconscio. Eri tu, separata  da me da una barriera trasparente e insormontabile. Eri tu e dicevi "Vieni a vivere da me, abito sul lago". Eri tu che mi parlavi, tu che mi baciavi. E al risveglio non c'eri più.

Ahimè, è troppo corta la coperta del ricordo, non vale a scaldarmi tutto e la tua voce come di sirena risuona troppo lontana  nello spazio e nel tempo, è un biglietto lasciato nell'arca di Giulietta, un augurio, un disperato bisogno d'amore. Sono passati troppi anni ormai: temo di confonderti con il sogno, con una figura idealizzata che da sempre mi porto dentro, ma non posso fare a meno di guardarti, comunque tu sia, perché non ti voglio dimenticare. E quando ti guardo il cuore batte ancora di più, gonfio di rimpianto perché non ti posso avere davvero vicina, perché rimani e rimarrai la rosa non colta.

 

JOHN FREDERICK PETO, “TABLETOP STILL LIFE. A LETTER FROM NEW YORK”

sabato 10 marzo 2012

La gazza

 

L’altro giorno è passato da casa S. con i soliti baffi tristi e la giacca verde che gli ho regalato dieci anni fa. Il suo passo sofferente da malato di schiena cronico, affaticato dal troppo vangare, rastrellare e sarchiare, potare e seminare… Eravamo in giardino a parlare del più e del meno, delle solite cose, quando ha allargato lo sguardo come fa sempre quasi per abbracciare la natura, i boschi che ama, le cascine sperdute.

Ha visto il nido della gazza sul carpino. Ora che i rami sono ancora nudi rimane scoperto, esposto a circa tre quarti della pianta, un cuneo inserito sulla forcella di un ramo. «Ha il tetto, vedi?» mi ha detto S. indicando con il suo dito tozzo e calloso, «è un nido di gazza». «Se me lo dicevi prima…» ha quasi sospirato, come se gli avessi recato un affronto imperdonabile. Poi ha infilato una serie di verbi – più che il Giulio Cesare del “veni, vidi, vici” sembrava un indigeno di qualche tribù primitiva: «Venivo, la catturavo, la mettevo in gabbia, la vendevo». eccolo lì il solito motore, il denaro. Sacrificare la libertà di un magnifico animale per un paio di banconote. E per fare cosa poi? Bersele al bar, comprarci un pieno di benzina?

Come potevo spiegargli che vedere le gazze entrare tra le foglie verdi nel pieno dell’estate mi riempie di gioia, che il loro volo bianco e nero nel cielo mi riconcilia con la vita e mi fa pensare alla libertà, all’infinito potere della fantasia, alla bellezza del creato? Come potevo dirgli che il loro riso beffardo mi ricorda la poesia di Quasimodo: “già l'airone s'avanza verso l'acqua / e fiuta lento il fango tra le spine, / ride la gazza, nera sugli aranci”. Non avrebbe capito.

Speriamo che la gazza torni a fare il nido sui carpini, Tanto io a S. non glielo dico…

 

WILHELM VON WRIGHT, “PICA PICA”

sabato 3 marzo 2012

Al bar della signora Rosy

 

Al bar della signora Rosy quella sera offrivo io: mancavano pochi giorni alla mia partenza. La primavera stava esplodendo con il fragore dei fiori colorati che riempivano le aiole. Fuori era buio ma c’era movimento: la Kurhaus, riaperta dopo lunghi mesi di restauro, era affollata; le coppiette gustavano il tepore, la voglia ritrovata di restare fuori dopo il letargo dei fumosi locali obbligato dai rigori del gelo e dalle intemperie.

Ma lì dentro, nel bar, sembrava ancora inverno: il ghiaccio dell’addio era sceso tra noi; non li avrei più rivisti, chissà per quanto tempo, i miei amici con i quali avevo condiviso ore e giorni memorabili. Danilo si fingeva fatalista ma, sotto la scorza, così dura all’apparenza, si lasciava andare al sentimentalismo. O forse era il liquore che iridesceva nel bicchiere sotto le luci.

Carlo invece mi ricordava un comportamento noto, il mio, quando ad andarsene era stato Silvio, partì un mattino d’inverno con il cappotto blu e la sciarpa alla Verdi di quelle sere del teatro; a quanti concerti d’archi, a quanti recital avevamo assistito insieme. Carlo taceva, commosso, si dominava per non lasciare che una lacrima gli colasse per il viso. Anch’io avevo fatto così.

Fabrizio rideva, provava a sdrammatizzare, ma dietro gli occhiali i suoi occhi dardeggiavano meno vispi, i suoi lazzi colpivano come fioretti foderati e lui ne era conscio.

Donato non sapeva che fare, si perdeva nel giornale, guardava la gente passare nella strada, la signora Rosy che lavava i bicchieri, osservava le etichette dei liquori: quella situazione lo imbarazzava.

Non c’erano altri avventori quella sera nel bar; per rompere quella crosta ghiacciata pagai e proposi di uscire: vedere gente, scherzare, ci avrebbe aiutati, ci avrebbe fatto dimenticare perché quella sera offrivo io.

(2 dicembre 1993)

 

MANEL ANORO, “BAR VERDE”

sabato 18 febbraio 2012

Lettera a me stesso

 

Il sogno. Hai sempre tenuto il sogno come scorta per l’avvenire. L’anelito di speranza che gonfia le vele quando la bonaccia più spaventosa non lascia spazio, che regge il timone nelle tempeste e consente alla tua nave di passare indenne tra gli scogli e riprendere il mare con più tranquillità.

Il sogno che è anche desiderio, che è un impasto di futuro e speranza e che talvolta si perde come una bolla di sapone che non riesce a elevarsi e scoppia senza raggiungere il cielo. Quando è capitato l’hai sempre chiamato illusione, senza disperarti troppo per la sua perdita, neanche lo avessi messo in conto da subito che sarebbe potuta finire così.

Il sogno che qualche volta sconfina nel ricordo e ti porta in luoghi dove sei stato felice e allora forse neppure te ne rendevi conto. Eppure, la felicità ricordata è anch’essa un po’ felicità, se anche sulla sua superficie di perla appare qualche screziatura di nostalgia, mai di rimpianto. Così qualche volta hai preso la macchina e ci sei andato davvero in quei posti: hai rivisto le piante e le case, hai calcato le passeggiate e ti sei aggirato per i moli con l’aria trasognata di chi ha finalmente appagato una sua mira. Sei andato anche a vedere dove avevi dato un bacio, dove ti eri fermato a discorrere, a pranzare, a scrivere una poesia. E quella tua sete si è placata un poco, l’estasi ti ha riempito la testa e il cuore di un’adrenalina che ti ha consentito di tirare avanti fino al sogno successivo.

Che poi quel sogno è qualcosa che è dentro di te e ogni giorno ti freme nelle mani e ti costringe a prendere la penna, la matita, la tastiera del computer e scrivere, scrivere, scrivere… I tuoi versi sono il solo modo per catturare quella bellezza che vedi e che entra dentro di te: la fai decantare sul fondo finché non filtra da sola la purezza cristallina e quella è la parola che esprime il tuo sogno, è la luce che hai racchiuso per un istante e che finalmente riesci a estrarre, a liberare come un cardellino dalla gabbia. Vola, libera, la luce. Vola la poesia che diventa inchiostro di penna stilografica o grafite di matita o una serie di pixel sullo schermo di un computer o caratteri stampati su un foglio bianco.

Che cosa vengo a dirti allora? Che cosa posso dirti se non di coltivarlo ancora quel sogno, di continuare ad annaffiarlo giorno dopo giorno, verso dopo verso, con le amorevoli cure che si prestano a una pianta d’appartamento cui si tiene particolarmente… Ma questo tu lo sapevi già, vero?

 

WILLIAM MICHAEL HARNETT, “STILL LIFE WITH LETTER TO MR LASK”