sabato 31 ottobre 2015

Aspettando il Grande Cocomero

 

Il mio sogno americano è sempre vivo e vegeto, ma non amo Halloween. O meglio, non amo l’Halloween importato dagli States e diventato mania sociale per le nuove generazioni. Provengo dalla cultura di chi non ha mai festeggiato da bambino con “dolcetto o scherzetto”, un’usanza mutuata da film e telefilm americani e diffusasi da noi, a quanto ricordo, solo dagli Anni ‘90. È la solita zucca che ormai viene tutti gli anni, a differenza del Great Pumpkin atteso invano da Linus in tante strisce dei Peanuts – la festa era talmente ignota da noi che i traduttori del fumetto, negli Anni ‘60 si sono lasciati ingannare e l’hanno definito Grande Cocomero. Ora, dopo tanti anni di assuefazione la festa straniera è entrata profondamente nella nostra società.

Ma non c’è nulla di nuovo sotto il sole: la carnevalata di travestirsi da streghe, da fantasmi, da mummie è il lato moderno delle danses macabres medievali in cui gli scheletri si lanciavano in forsennate sarabande.

Anche le celebri zucche non sono una novità: mio padre mi riferisce che tale uso c’era nelle nostre campagne e ne ha un ricordo ancora vivido; nel Mantovano ancora oggi c’è la tradizione delle “lumere”, zucche intagliate e illuminate, con i bambini che girano di casa in casa a chiedere i “dolci dei morti”. In molte zone della Sicilia sono i defunti a portare i doni e non la Santa Lucia, il Gesù Bambino o i Magi della tradizione cristiana o il Babbo Natale commerciale e consumistico.

Alla fine sempre lì si finisce: al consumismo. Tutto diventa un mezzo per vendere tanto che ieri sera ho visto addirittura il dolce di Halloween, una specie di panettone marrone con fantasmini di cioccolato e zucche glassate. Gli ipermercati, le cartolerie, i negozi di giocattoli sono pieni di oggetti a tema, è spuntata persino la borsa per andare di casa in casa a chiedere “dolcetto o scherzetto”.

Non amo Halloween, lo ribadisco. Lo accetto come un dato di fatto, un’evoluzione della società per influenza culturale americana. Ci passerò sopra, e andrò al cimitero a fare visita ai miei cari che non ci sono più e soprattutto a coltivare il fiore del ricordo.

2013

 

sabato 24 ottobre 2015

Una lezione di politica

 

Da qualche tempo la discarica comunale – chiamata con garbato e ipocrita eufemismo “isola ecologica” - del mio paese è stata dotata di accesso condizionato con Carta Regionale dei Servizi, che il volgo chiama invece “tessera sanitaria”. In pratica questo significa che il sistema controlla non solo che chi viene a depositare i rifiuti è un residente ma anche limita gli accessi a un numero definito di macchine, cioè sei.

Messa così, sembra una cosa asettica, pur parlando di rifiuti, che al massimo attinge alla sfera privata dell’individuo, che si sente da un lato leso nella sua privacy e dall'altro controllato dall’occhio vigile e indomito del Grande Fratello di orwelliana memoria.

Ma, in realtà, l’automazione è anche la parabola di molto altro: prima, quando l’accesso era libero e controllato casomai dagli addetti, non c’erano lunghe code per entrare e l'operazione di conferire i rifiuti ingombranti, le macerie, il vetro, le batterie, l’erba rasata e i rami potati era tutto sommato rapida. Adesso ci sono code, mugugni, liti, battibecchi. Ovvero, in questo caso si può dire che le norme e la loro applicazione senza un minimo di buon senso - gli arcigni controllori non consentono alcuna eccezione all’ingresso - generano un caos tipicamente burocratico, statale, mentre l’anarchia di prima, praticata in armonica collaborazione dagli utenti era in grado di smaltire con maggior velocità l’uso della discarica comunale.

Insomma, ci siamo fatti dare una lezione di politica anche dalla spazzatura.

 

sabato 17 ottobre 2015

La lezione della storia

 

Guardavo la luce del mattino discendere dal cielo, farsi nebbia, ricoprire la neve caduta sulle vette a partire dai duemila metri. Lì, al Passo del Tonale, ottobre disegnava una terra brulla dove spuntavano dalla pioggerella gli impianti per lo sci e le tipiche case di montagna: hotel, bar, rivendite. Sono entrato nel piccolo Sacrario Militare e ho sentito tutto l’orrore della guerra, la sua follia che mai riusciamo a superare.

Mi sono portato quella sensazione poi a Forte Strino: fuori abeti e larici, un cielo che era divenuto intanto azzurro, dove galleggiavano fiocchi bianchi di nuvole – avevo davanti un paesaggio da mozzare il fiato e alle mie spalle una fortificazione, uno strumento bellico in mezzo a tanta bellezza. All’interno del forte faceva freddo: ascoltavo la guida parlare di quei soldati acciambellati accanto alla mitraglia e i loro brividi erano i miei. Pensavo a quanti stenti e a quanta fatica dovettero sopportare, così come gli abitanti del vicino paese di Vermiglio, distrutto dalla guerra, deportati, profughi, obbligati a ricominciare la loro vita dal nulla.

Ripetevo con Ungaretti: Non ho più nulla / da dare / che questa durezza / di vita battuta / come una strada / di guerra. Ripetevo con Wilfred Owen: Se a ogni sobbalzo sentissi il sangue / sgorgato dal marcio dei polmoni, / osceno come un cancro, amaro come un rancio / amico mio, con tanto zelo non ridiresti / a bambini arso di disperata gloria, / la vecchia menzogna: Dulce et decorum est / pro patria mori”.

Sono uscito nel sole: il Monte Vioz era lì, cento anni dopo, qualche batuffolo di ovatta impigliato ai suoi larici. E la lezione della storia nuovamente dimenticata dagli uomini.

 

Forte Strino

FORTE STRINO – FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 10 ottobre 2015

Scene di vita quotidiana

 

Studenti e pendolari scendono dal treno in quell'immenso cantiere che è la stazione di Porta Garibaldi. Sotto un cielo grigio fumo i binari luccicano alla pioggia che cade fitta sulla dolce malinconia di novembre. Nel tunnel oscuro che porta alla metropolitana le scarpe si divertono a stridere amoreggiando con la gomma nera del pavimento. Il treno arriva e parte snodandosi come un grosso bruco nei meandri sotterranei, perfora le viscere della città.

E sbuco alla luce incerta della Vecchia Milano aprendo l'ombrello, una ragnatela di gocce si forma sul mio impermeabile bianco. Sbrigo i miei affari e sono ancora all'aperto, nel grigio asettico di questo cielo; una sirena urla a squarciagola tra i clacson impazziti. L'autobus si annuncia da lontano, una scatola arancione che emana un fumo nero. C'è folla e non c'è posto. Tre militari discutono di cinema, una signora con la borsa della spesa scende e libera un posto, si siede una ragazza con un libro di testo sotto il braccio. Cordusio, domina il grigio, sullo sfondo i pinnacoli del Duomo. Ed eccolo questo Duomo di marmo di Candoglia, imponente simbolo di questa città. Tra i piccioni in piazza una marea di ombrelli colorati e giacche a vento di una scolaresca in gita.

San Babila, Largo Augusto, piove sempre più fitto, le strade sono coperte da cellofan - questa pioggia che lucida il pavé. Piazza del Tricolore, poi la Prefettura, Corso Monforte. Scendo e cerco il numero civico che mi interessa. Ragazze alla moda camminano alte e slanciate davanti a me. Ecco la società di informatica, c'è l'insegna sopra il citofono. Chiedo al portiere a che piano si trovi l'ufficio che cerco; è proprio una portineria da Vecchia Milano, con l'androne buio e i fiori. C'è un ascensore di vecchio tipo, quelli con le grate; non mi fido: preferisco salire le scale. Ed ecco la porta: suono e mi apre un ragazzo. "Sono venuto per quei floppy-disk". Lo seguo e mi consegna la scatola con i programmi. Sono ancora in strada sotto la pioggia: le automobili si rincorrono fra uno stridore di gomme, qualche donna con la borsa della spesa, due ragazze parlano d'amore: scene di vita quotidiana.

12 gennaio 1989

 

Milano

FOTOGRAFIA © NICOLE TANZINI/FLICKR

sabato 3 ottobre 2015

I buttadentro

 

Nel mio recente viaggetto a Venezia ho rivisto i “buttadentro”: ogni ristorante, pizzeria, trattoria delle strade centrali, quelle più frequentate dai turisti, ne ha uno. È un cameriere se non il ristoratore stesso o anche una ragazza giovane e bella che negli orari canonici di pranzo e cena – molto vari, visto che alle cinque e mezza i giapponesi e gli americani già si siedono a  tavola -  “accalappia” i clienti. Non è neppure necessario avvicinarsi al leggio con il menù: basta camminare per la via. “Uno spritzino?” mi ha chiesto un affabile cameriere, che somigliava al detective Munch di Law & Order Unità Vittime Speciali, davanti alla chiesa di San Geremia e Santa Lucia. Volentieri, amico, ma sono le tre del pomeriggio e ho ancora in bocca il caffè…

Una cosa simile mi capitò di vedere a Lissone, capitale italiana dei mobilieri: fuori dal Palazzo del Mobile 100 Firme, che raccoglie in esposizione i prodotti di più artigiani, si materializzarono, come in un film degli Anni Cinquanta, i procacciatori della concorrenza: aspettavano al varco le automobili che lasciavano il parcheggio per intrufolare un biglietto da visita, per chiedere se si aveva bisogno di qualcosa, che tipo di mobile si cercava e, infine, per invitare a seguirli nella loro esposizione.

Gli affari sono affari, e serve anche questo genere di faccia tosta per emergere, per sopravvivere. Che sia allettamento o lusinga, sta in un percorso in cui si possono incontrare la prostituta che offre la sua mercanzia, il venditore del mercato che grida: “Carciofi! Carcioooofi!” e le sirene della pubblicità che ci incantano dai cartelloni stradali, dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi.

Ottobre 2013

 

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA