sabato 27 luglio 2019

In veranda


Siedo in veranda guardando Giovenzana e bevendo tè freddo, come un gentiluomo del Sud, di quelli che popolavano le scene di Via col vento o i romanzi di Maurice Denuzière. Certo, loro non guardavano Giovenzana, ma dalle verande di quelle belle ville bianche di legno con le alte colonne e le enormi scalee interne, lo sguardo spaziava sui campi di cotone, sugli ampi giardini dove svettavano pioppi, olmi, querce e noci di pecan. In redingote, sorbivano la loro bevanda ghiacciata dondolandosi sulle sedie.

Io invece guardo Giovenzana, lassù, adagiata con il suo campanile sul Monte San Genesio, una ferita bianca nel verde scuro del colle adesso che l’estate è ancora al suo colmo sebbene stia declinando verso la dolcezza di settembre. Indosso jeans e maglietta, ma il bicchiere di tè freddo è lo stesso, i cubetti di ghiaccio vi danzano regalando al bicchiere minute goccioline che contrastano con la calura di questo giorno d’agosto. Quella del colle è la visione consueta, quella che mi si presenta da questa veranda guardando a nord, ben prima che il Resegone o la Grigna si staglino nel cielo. Sono le prime propaggini delle Prealpi, quelle che ospitano i laghetti morenici di Annone, Alserio, Pusiano e Segrino. Appena di qua dal San Genesio la conca in cui riconosco l’imponente edificio dell’ospedale e la torre caratteristica della cittadina. Devo guardare un po’ più a ovest per scorgere il santuario di Montevecchia. Di solito mi soffermo ad ammirare il tramonto cadere lento su questa valletta, sciogliersi in tinte che vanno dall’arancione al rosa, innescando talora con le nuvole incredibili reazioni d’oro e d’argento, di porpora e di viola.

Sono le tre di pomeriggio e il sole picchia forte. Per fortuna, sono all’ombra con il mio libro di racconti. Ho letto troppo, ho la vista annebbiata. Tolgo gli occhiali, chiudo gli occhi. Ed è lì con gli occhi chiusi che mi viene l’idea, mentre nella strada passa un camion che forse con il suo rumore di gomme ha inconsciamente risvegliato un antico ricordo: adesso riapro gli occhi e non sono più qui, su questa veranda a guardare Giovenzana allungarsi nella foschia del San Genesio, ma mi trovo su un’altra veranda, quella dell’Hotel C*** di Lignano Pineta e davanti ho il grande palazzo bianco con i portici e decine di appartamenti affittati per le vacanze. Per la strada passano turisti austriaci e tedeschi, olandesi e italiani con i materassini e le infradito, turiste con le borse da spiaggia e il pareo, oppure con il reggiseno del bikini e i pantaloncini. E dal bar arriva rumore di bicchieri, di cucchiaini che tintinnano nelle tazzine di caffè. Nell’aria il salmastro del mare e l’aroma di resina che proviene dai pini. Così, come per incanto, come avviene in certi film americani senza pretese o in misteriosi racconti di Buzzati o di Kafka. Adesso riapro gli occhi e mi trovo davvero là… Ma intanto continuo a figurarmi quella scena, per paura che svanisca se dovessi riaprire gli occhi: il tavolino sotto i pini, lo stesso libro davanti, lo stesso tè, i palazzoni bianchi di Pineta, i turisti per la strada.

Poi gli occhi li devo riaprire per forza, mica posso restare tutto il pomeriggio così, a sognare di trovarmi altrove: non c’è Lignano Pineta, non è la veranda dell’Hotel C*** ma il mio solito balcone di tutti i giorni con le vecchie mattonelle porose grigie e rosse, con la ringhiera verde e le gazanie nelle fioriere appese, gli ibischi e le piante grasse nei vasi. E Giovenzana abbarbicata al colle. Come mi piace la sera quando nell’ultima luce il San Genesio si tinge di viola…

2011


FOTOGRAFIA © REAL ESTATE

sabato 6 luglio 2019

Afa

Dalla finestra socchiusa entrava il caldo della prima estate. Il rumore lontano di una trebbiatrice persisteva pesante nell’aria. Sdraiato sul letto, Cesare contemplava il soffitto bianco; immaginava che i propri pensieri fossero acrobati e che volteggiassero intorno al lampadario.

Nella strada passò una motocicletta. L’immobilità assoluta era l’unico modo di vincere l’afa, restare fermi come un sasso sul greto di un fiume, perfettamente immobili. Una mosca volava nella stanza e il suo ronzio si confondeva con il rumore della trebbiatrice lontana. Cesare pensò a Teresa: l’altro giorno, insieme agli altri ragazzi, era stato alla gita lungo il fiume. E c’era anche lei.

Teresa aveva lunghi capelli scuri e un’aria molto furba. Ciò che più gli piaceva in lei era la voce, quella voce calda e dolce. Erano stati insieme tutta la giornata eppure lui non le aveva rivolto neanche una volta la parola, se non nel saluto corale, quando a sera ognuno aveva ripreso la via di casa. E pensare che si era immaginato tante volte il giorno in cui sarebbero stati insieme lui e Teresa in una delle famose gite degli amici. Come quando erano stati in montagna e avevano detto che sarebbe venuta anche Teresa ma poi lei non c’era e lui quante volte aveva pensato a lei quel giorno...   

Cesare meditò sul fatto che non solo con Teresa si era comportato così ma con tutte le ragazze. Proprio tutte no: c’era Lucia, che lui considerava ormai come una sorella, con lei parlava anche per ore. Poi c’era Maria, così sensibile, così simile a lui. Forse era proprio quella compatibilità di carattere che lo aveva spinto a parlarle. Cesare pensò ancora una volta a Teresa, così dolce, così desiderabile. Si voltò su un fianco e fantasticò su come fare per dichiararsi a lei… Con la sua immagine negli occhi e nei pensieri, si addormentò.

(Maggio 1989)



ASHA CAROLYN YOUN, “RAGAZZO CHE DORME”