sabato 27 aprile 2013

Il 29 aprile 1988

 

Quella mattina partii dalla Centrale sotto un cielo livido come questo, che andava spaccandosi nell’alba di aprile.  Il verde nuovo delle foglie ornava i rami del paesaggio che scorreva dietro i finestrini. Avevo due compagni, ci eravamo riconosciuti subito “sulla stessa barca”, capelli corti e borsone: “Militare? A Merano?”. A Brescia dovemmo lasciare il posto a chi lo aveva prenotato, rimanemmo in corridoio con il borsone tra i piedi fino a Bolzano, fino al cambio di treno, mentre il mondo strisciava oltre i vetri sporchi dell’Intercity. 

A Bolzano salimmo su un vecchio elettrotreno marrone, quello derivato dalla “littorina”: ci portò a Merano tra i campi di mele in fiore, nuvole bianche intersecavano i binari e lo scorrere scintillante dell’Adige. La città infine si profilò con il suo ippodromo e le sue case Liberty: scendemmo alla stazione centrale e non a Maia Bassa, come avremmo dovuto. Comunque, anche lì c’erano ad attenderci i camion militari e i caporali istruttori; ci fecero salire sui cassoni e scendemmo verso le caserme - sentivo l’aria attraversare il telone, guardavo la città scorrere veloce dall’apertura posteriore.

Quando attraversammo la sbarra bianca e rossa del passo carraio della “Rossi”: sentii come se la mia libertà se ne andasse via davvero in quel momento. Era mezzogiorno ormai e ci portarono subito alla mensa. C’era della pasta e una cotoletta, non c’erano più bibite, solo acqua. Per la prima volta venimmo schierati in fila e camminammo fino al cinema; ci lasciarono lì nel piazzale ad attendere. Ero ancora con i due compagni del treno, discorrevamo sotto i grandi tigli dalle tenere foglie. Era un modo per vincere l’ansia dell’ignoto, e intanto conoscevamo altri ragazzi, fraternizzavamo. Vennero alcuni caporali e ci divisero per distretto di appartenenza: Como, Varese, Milano, Bergamo, Brescia, Bolzano, Vari. La Valtellina quell’anno non c’era, esentata dalla leva per l’alluvione del luglio precedente. Lì persi i due amici del treno, che venivano dal distretto di Milano. Io fui indirizzato verso il gruppo di Como. 

Finalmente ci fecero entrare: dovemmo attendere ancora che il nostro nome fosse chiamato. Le ore passavano lente e inesorabili, una cosa a cui mi sarei abituato in fretta, almeno per quel mese di C.A.R.; vennero le sei e ritornammo in mensa e poi di nuovo al cinema. Mi chiamarono. Si doveva stare a distanza di uno sgabello dalla lunga schiera di tavoli – un accenno della disciplina cui tutti ci saremmo dovuti adeguare, anche quel ragazzo di Sotto il Monte che aveva capelli da rockstar heavy metal. I tavoli andavano passati uno per uno: qui declinare le generalità, là lasciare le impronte digitali, altrove ritirare uno scontrino oppure spiegare le proprie attitudini. Infine un militare visibilmente annoiato mi assegnò alla 50ª Compagnia e mi definì “Alpino verde” grazie a un bigliettino con tale dicitura timbrata, che mi consigliò di non perdere.

Presi il mio borsone e mi avviai con altri ragazzi alle visite mediche. Dopo un’altra lunga attesa ci fecero un’iniezione nel braccio e il Tine Test, ci pesarono e misurarono l’altezza. Ci indirizzarono infine alla palazzina che, entrando dalla caserma, si trovava sul lato destro, la “Venini”: era quella la 50ª Compagnia. Nell’atrio c’era il disegno di un’aquila e dipinta sul muro la Preghiera dell’Alpino: “Su le nude rocce, sui perenni ghiacciai”, avrei avuto modo in una lunga sera di piantone di impararla a memoria. Salimmo le scale e un caporale in tuta azzurra dell’Esercito ci accolse in una saletta e ci fece compilare un test-questionario, quindi ci avviò al magazzino di compagnia a ritirare materasso, lenzuola, cuscino, coperta e zainetto.

Finalmente fui incorporato nel plotone: 50ª Compagnia, II° Plotone, IVª squadra. Arrivai carico come un mulo e un altro caporale mi chiese come mi chiamassi. Gli risposi e mi mandò nella quarta camerata. Cercai il mio letto nelle camerate contrassegnate dal 4: a destra non c’era, lo trovai a sinistra. Era la branda superiore del castello. Vi adagiai il materasso, infilai le lenzuola e la coperta: era il primo letto che facevo in vita mia, ma da quel giorno non avrei più smesso. Infilai il cuscino nella federa e il gioco era fatto. Era tardissimo, ero sfinito, ma avevo ancora una cosa importante da fare.

Nel 1988 non c’erano ancora i cellulari, ci si affidava al magico gettone scanalato o in alternativa alle monete da 200 lire. Anche le schede telefoniche erano ai loro albori. Chiesi al caporale - si chiamava Pessina ed era varesino - se potessi uscire a telefonare; mi indicò le cabine della caserma, a destra del passo carraio e mi esortò a fare in fretta. Chiamai casa: erano quasi le 22, ormai. Ed era giunto il momento di prepararsi per la notte.

Mi recai nei bagni con molto timore di quello che vi avrei trovato. Invece erano moderni ed efficienti, pavimentati con piastrelline di cotto rosso. Ero in pigiama ormai, stavo per andare in branda quando scattò il contrappello. Fecero i nomi e tutti rispondemmo “Presente”, anche il ragazzo che dormiva nella branda sotto la mia e che avevo fatto di tutto per non svegliare: “Ritsch” era il nome che avevo letto sulla targhetta e che il caporale Corbetta, varesino, aveva chiamato. Poi chiamò me… “Presente!”

 

Giuramento

sabato 20 aprile 2013

Total eclipse of the heart

 

C'è chi a mezzanotte considera finita una serata, c'è chi invece la vede cominciare. Nella letteratura troviamo molti esempi di questi ultimi, indicati come bohemiens. Vincenzo e Roberto sono bohemiens viventi: per loro conta solo il divertimento da mezzanotte in poi. Forse per questo la mattina sono quasi introvabili, mentre il pomeriggio bivaccano. Quando esco con loro devo trovarmi qualcosa da fare fino a mezzanotte, poi li vedo arrivare.

Quella sera ero un po' annoiato: non avevo trovato altra compagnia che un libro dei Peanuts; Paola era andata chissà dove con sua madre, Enrico era al cinema, altri amici in vacanza all'estero. Rimasi al bar tutta la sera con il mio libro e una Coca-Cola ghiacciata lanciando occhiate occasionali alla televisione che trasmetteva le registrazioni delle gare del mattino alle Olimpiadi di Los Angeles in attesa di collegarsi con la California.

Verso le undici e mezza arrivarono gli "inseparabili": Vincenzo con la sua pettinatura alla "galeotto da poco evaso da Alcatraz" e Roberto, pallido come un fantasma. «Andiamo?» esordì il fantasma senza neppure salutarmi. «Aspetto Paola» risposi e i due si sedettero diligentemente ordinando misteriose birre olandesi. E Paola arrivò scusandosi del ritardo: in centro c'era traffico nonostante l'ora... «Vi porto io in un posto...» disse entusiasta Roberto, che ci aveva ormai abituato a queste sparate da montagna che partorisce il topolino. Però stavolta faceva sul serio. Ci scarrozzò a lungo sulla sua Autobianchi A112 argento che gemeva ad ogni buca. Paola si lamentò della musica sull'autoradio: era una vecchia cassetta di Joe Cocker che a me invece non dispiaceva.

Finalmente giungemmo alla meta, "Il Tondino", dove ancora numerosi clienti sedevano davanti alle tovaglie a scacchi bianchi e rossi. Sotto il pergolato troneggiava una grossa  botte piena di fiori. Vincenzo scelse uno dei tavoli liberi e ordinammo: patatine fritte con ketchup per tutti e boccali di birra Hacker.

Arrivò l'una ed eravamo ancora là a parlare - stranamente, per una volta - di cose serie: il lavoro, l'amore, il sesso, l'emancipazione femminile. All'improvviso ci fu un silenzio ispirato, come evocato dal vento che soffiava dal mare: la televisione accesa anche lì, in attesa di collegarsi con Los Angeles, trasmetteva video musicali. Quello che era riuscito a commuoverci era "Total eclipse of the heart" di Bonnie Tyler, con la sua musica soave. «Mi fa accapponare la pelle» disse Vincenzo. In quel momento, attraverso una canzone, tutti e quattro capimmo molte cose: quello era un momento felice e temevamo di rompere l'incanto dei nostri vent'anni. Ci bastava poco per la felicità: la compagnia, una sera di stelle, una musica dolce e la consapevolezza di avere il mondo davanti a noi, una carica di responsabilità e di infinita sensibilità.


1986

 

Interior-of-the-Restaurant-Carrel-in-Arles

VINCENT VAN GOGH, “INTERNO DEL RISTORANTE CARREL A ARLES”
 
                  

sabato 13 aprile 2013

Piccoli tesori

 

I libri sono per me fonte di sorpresa. Non intendo per quello che c’è scritto dentro, o meglio, spesso lo è anche il loro contenuto, sebbene di un genere più spirituale. No, intendo proprio i libri in senso materiale, come delle piccole casseforti di ricordi di un passato che fu, che se n’è andato per sempre e com’è logico che sia, ma che ha lasciato qua e là tracce di sé che all’improvviso erompono come il raggio di una torcia a illuminare una notte buia.

Poco fa, cercando una frase che ricordavo posta come epigrafe in un libro, ho dovuto aprirne una dozzina, ed è portentoso il regalo di piccoli tesori che essi mi hanno fatto: lo scontrino di un bar in un ponderoso saggio sulla guerra del Vietnam – 4.500 lire, ed ho rivisto quel piccolo locale con i tavolini all’aperto e su un tavolino con la tovaglia a quadretti una coppa di gelato ed una birra; davanti, seduti sulle sedie di resina bianca io e lei… Poi ancora, in un libro sul linguaggio, due biglietti promozionali del circo Moira Orfei, non utilizzati perché l’uso degli animali nei circhi mi ha sempre immalinconito… – ma eccoli lì, tagliandi rosa con il disegno di un elefante in un’improbabile acrobazia. E in un altro saggio della Piccola Biblioteca Einaudi sulle origini e la natura del linguaggio, ecco una cartolina militare, quella della Brigata cui sono appartenuto per un anno: l’aquila ad ali distese con una piccozza in primo piano e una vetta lontana.

Piccoli tesori, piccole parti di me, della mia vita, del mio tempo. Piccoli oggetti insignificanti che riassumono in sé un valore più alto: quello di simboli assurti a rappresentare la voce della memoria. Ah, poi la frase l’ho trovata: “Il fiume è simile alla mia pena: scorre e non si esaurisce”, è di Guillaume Apollinaire.

 

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FOTOGRAFIA © DEBORAH SCHENCK

sabato 6 aprile 2013

Davanti alla finestra

 

Siede davanti alla finestra, il silenzio dietro le spalle. La sera che scende trova forse una nuova ruga sul suo volto. È un uomo sui quarant’anni; indossa una camicia a quadretti sui toni del blu con le maniche rimboccate e un paio di jeans. Sta pensando che il vento che sente arrivare ha sentore di salso, probabilmente viene dal mare: il vento che cancella le impronte sulle spiagge, le livella e le lascia compatte come lavagne. Gli anni invece non si comportano come il vento: non agiscono allo stesso modo sulle nostre memorie, non le cancellano come un colpo di spugna, o meglio forse passano come un panno che toglie la polvere più sottile ma nulla può sui solchi incisi a fondo, scalpellati nel granito.

La sua memoria, per esempio, racchiude come uno scrigno il ricordo di un amore perduto. Gli sembra ancora di essere là, in quel bar sul lungomare: la vede andare via, camminare lontano, fuori dalla sua vita. Non ha saputo ribattere, non ha saputo dall’alto del suo purissimo amore, gridare qualcosa: la voce gli si è fermata nella gola, si è trasformata in un grumo amaro. È ancora lì, le due tazzine di caffè vuote davanti, lo scontrino che ondeggia alla brezza come un’attinia nella corrente del fondale. Osserva i gabbiani che lasciano le bitte e si levano in volo, le barche che veleggiano all’orizzonte. È inebetito, posato sulla sedia come un sacco vuoto, un miserabile otre di cornamusa che nessun fiato riempirà. Almeno si sentisse come un pugile suonato…

Anni. Sono trascorsi anni. E in quegli anni lui ha respirato ancora tutti i respiri di lei, ha vissuto in se stesso tutte le notti che avrebbe avuto con lei, l’ha ospitata nei suoi sogni come una dea. La sentiva ardere nel petto come un fuoco, come un dolore che lo spremeva vivo, che gli obnubilava la mente, che lo ottenebrava, che alla fine lo inaridiva. Oppresso dal suo peso, andava per le strade, dormiva, viveva come boccheggiando, privo del suo spirito vitale. La amava. L’ha amata. La ama ancora, anche adesso…

La luce del tramonto colora la stanza di un caldo rosa. Vede passare le navi lontane: quante volte ha pensato di fuggire, di andare lontano, di dimenticarla. Anche adesso ci pensa, ma è come quando si parla per ipotesi, si costruisce un futuro che non sarà, solo per un esercizio mentale, un puro costrutto accademico. Lo sa, l’ha sempre saputo: non può dimenticarla, perché non si dimentica la vita.

 

Young Man At His Window

GUSTAVE CAILLEBOTTE, “UOMO ALLA FINESTRA”

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