sabato 25 giugno 2011

Maturando

 

È tempo di esami di maturità, giornali e televisioni si sbizzarriscono a indovinare le tracce del tema d’italiano, a divinare quale sarà l’autore scelto per la traduzione di latino, si lanciano nella presentazione di improbabili gadgets e metodi per copiare, dall’orologio con lo schermo LCD alla penna da farcire con i bigliettini. È un rito di passaggio, un’obbligatoria iniziazione che ci porta nella vita adulta. In alcune tribù si viene scarificati, in altre circoncisi, in altre ancora si partecipa a una battuta di caccia. Da noi si passa l’esame di maturità.

Ai miei tempi – eh sì, ora bisogna dire così – non c’era Internet, non c’era tanta tecnologia. I computer erano ai loro primordi: i più tecnologici avevano il Commodore 64 o lo Spectrum ZX Sinclair. Smartphone poteva essere una marca di scarpe o di caramelle, ché tanto i jeans dovevano essere quelli della Levi’s e basta… Inutile parlare di andare a cercarsi le tracce in Rete o di preparare una tesina scopiazzando qua e là tra i vari blog. Eppure, anche noi, nel nostro piccolo avevamo una rete di spionaggio. Non so come, non so per quali vie. Fatto sta che domenica 3 luglio 1983, nel pomeriggio, mentre stavo arrampicandomi sugli specchi dell’Antologia del Novecento italiano, mi chiamò Luca – no, non sul cellulare, era ancora una decina d’anni di là da venire, proprio sul telefono fisso, quelli di un indefinito color caramello pallido, con la cornetta e il disco rotante – e mi disse che, sicuro sicuro, i temi sarebbero stati su Garibaldi e su Gozzano. La sera una bella camomilla e un po’ di svago – avrò visto un film alla tele o avrò giocato a carte con i cugini – e poi a letto per una notte di sogni frammentati. “Notte prima degli esami”, sì, la celebre canzone di Antonello Venditti. Non potevamo cantarla, sarebbe uscita l’anno dopo, quando già andavamo all’Università. La chitarra e il pianoforte però ce li avevamo: li suonavamo prima di andare in classe certe volte la mattina... Sembrava una scena di Saranno famosi, il telefilm che allora andava per la maggiore e tutti noi quanto avremmo voluto far parte di quella School of Arts con il professor Shorofsky, con la signora Berg, con Danny Amatullo e Doris Schwartz come amici...

Vabbè, torniamo a noi: il 4 luglio è non solo la data dell’Indipendenza americana, quando gli yankees si godono la festa e celebrano con i fuochi d’artificio, è anche la data del mio esame di maturità, o meglio della prova di italiano. Raggiunsi Bergamo con la mia Fiat 126 e parcheggiai prima di entrare in Città Alta: la sede per gli esami di Stato non era la nostra scuola, ma il liceo Paolo Sarpi. Salutai i miei compagni, ci mettemmo a discutere del più e del meno (le tracce, of course...) e stranamente mi è rimasto impresso che Paolo mi chiese qualcosa della mia cintura elasticizzata blu. Entrammo in palestra: banchi singoli. Sei ore e temi che naturalmente non solo non erano stati previsti ma che neppure erano di mio gradimento: Leopardi visto da De Sanctis e la prima guerra mondiale Cosa si fa in questi casi? Ci si butta sulla traccia d’attualità. Era brevissima, il che non aiuta, perché non ti permette di seguire uno schema, così come ci aveva abituato il nostro professore d’italiano con le sue tracce arzigogolate che praticamente erano già metà dello svolgimento. D’altro canto, permetteva di spaziare, di prenderla larga, di variare e, eventualmente, di giustificare in tal modo di fronte alla commissione una certa distanza dalla via maestra. Mi presi mezz’ora per decidere, alla fine iniziai. Il tema era: “L’uomo cittadino del proprio tempo”. Ci vuole una bella fantasia per dare una traccia simile. La presi larga: cominciai dalla definizione di cittadino, e ancora ringrazio il mio fidato Devoto-Oli per l’aiuto, parlai della cittadinanza degli antichi Romani, di alienazione, di diritti e doveri e profetizzai qualcosa a proposito dell’avvento delle tecnologie – insomma, neanche lo sapevo, ma stavo parlando dei “nativi digitali”. Avevamo tempo fino alle 15 (6 ore!) alle 11 avevo già bell’e finito. Rilessi il tema e lo copiai, poi aspettai che qualcuno si decidesse ad uscire – non volevo essere il primo! Una ragazza si alzò e consegnò, poi un’altra. Allora mi decisi. A mezzogiorno ero fuori a respirare l’aria di luglio. Attesi qualche mio compagno di classe, poi tornai a casa.

E il giorno dopo, 5 luglio, ero ancora lì. Latino. Seneca, impegnativo, ma dallo stile pulito. Poteva andare peggio. Un brano tratto dalla Consolatio ad Helviam sul sapiente e sui suoi rapporti con la sorte: ”Bona condicione geniti sumus, si eam non deseruerimus. Id egit rerum natura ut ad bene vivendum non magno apparatu opus esset: unusquisque facere se beatum potest”.  A differenza della prova d’italiano lì non c’era incertezza, bastava solo tradurre. Chiamiamola una prova di tecnica. E tre ore dopo uscivo con il mio Calonghi-Badellino rosso sotto il braccio.

Adesso c’era da aspettare quasi venti giorni per gli orali: il mio era fissato per la mattina del 23 luglio, ed ero il secondo in assoluto di tutta la classe, avendo i “saggi” sorteggiato la lettera iniziale del mio cognome. E furono due settimane di un caldo assurdo, con temperature altissime e un’afa spettacolare: mi capitò di andare a studiare in cantina per restare un poco al fresco. Chi è quel furbo che ha detto “Potevi andare in qualche centro commerciale...” L’aria condizionata allora non era contemplata: ventilatore e ventaglio. Fu una full immersion negli interi programmi di greco e di italiano, la materia assegnatami e quella scelta da me – le altre due erano fisica e filosofia. Dopo quelle due settimane letteralmente sudate sui libri venne anche sabato 23 luglio. Bergamo, Paolo Sarpi. Tradussi a vista il brano di Isocrate che mi fu proposto (bella forza, sapevo quasi a memoria tutto il volume delle sue Orazioni) e quando mi chiesero di parlare di qualcosa che mi piaceva, pontificai dei lirici greci, in particolare di Archiloco. Il commissario osservava, poi all’improvviso, come un gufo che si risvegli dal sonno, chiese “E Saffo?”. “Saffo, la Decima Musa...” e via di questo passo finché non mi fermò e disse “Basta, grazie”. Passai sulla sedia di italiano e pensavo che avrei avuto bisogno di almeno un anno di riposo tra un’interrogazione e l’altra. Guardai i miei compagni che sulle sedie dietro di me osservavano e facevano cenni di incoraggiamento. In quei pochi secondi dovevo trovare la concentrazione e cambiare tono. Il commissario a bruciapelo: “Lei che cosa pensa di Montale?” Che era un brav’uomo? Che mi piacciono le sue poesie? Che scriveva da dio? Mi mantenni sul vago e parlai della “teologia negativa”, dell’evoluzione del suo stile, del fatto che l’Accademia Svedese si era finalmente accorta della sua grandezza e che otto anni prima gli aveva tributato un doveroso Nobel. “E Leopardi?” – Brav’uomo anche lui, pensavo, anche se un po’ triste – “Vedo che lei non ha scelto il tema su Leopardi. Perché?” Carogna… “Guardi, ho apprezzato subito la traccia sull’uomo cittadino del proprio tempo…” “Comunque ha scritto proprio un bel tema. Complimenti… Vada, vada… La sua maturità è finita, vada pure a divertirsi” e mi porse la mano da stringere.

Il giorno dopo ero già al mare, sdraiato sulla spiaggia a sciogliere le tensioni. Mi sentivo come un sacco vuoto, come se tutte le nozioni che avevo immagazzinato fossero volate via nell’aria. Conobbi una ragazza di Udine. Anche lei aveva appena terminato la maturità. Legammo subito. Quando le comunicarono la votazione – per telefono – la ribattezzai subito Miss 57. Poche ore dopo divenni Mister 48.

 

Fotografia © Domenico Di Giacomo