In quelle mattine al mare restavo sulla spiaggia a guardare le alghe trascinate a riva dalla marea sotto un cielo incerto, respiravo a pieni polmoni l’aria incrostata di iodio e di salsedine. Le nuvole si ammassavano l’una sull’altra mentre il sole dell’alba provava ad attraversarle donando loro dei riflessi dorati, rivestendole di broccati veneziani. E nello specchio d’acqua si raddoppiavano, tanto da non sapere quasi più quale fosse il cielo e quale la terra.
Sedevo sulla veloce barchetta rossa del salvataggio e riordinavo i miei pensieri: provavo a far combaciare le varie tessere della mia vita in un puzzle che sembrava complicato: mi sentivo come se la soluzione fosse una complicatissima formula matematica, come se l’unica via d’uscita fosse la quadratura del cerchio o la trasformazione alchemica dell’oro.
Ora molto tempo è trascorso. Eppure stamattina, attraversando il giardino sotto il cielo incerto di prima estate ho riprovato quell’emozione, come un dejà vu. Non c’era il mare, non c’era la barca del bagnino: soltanto nuvole che si inseguivano nel chiarore dell’alba e un tratto di terra arida dove spuntavano certe erbacce a ombrello. Mi sono sentito per qualche istante il ragazzo di quegli anni. Poi, con una punta di tenerezza, ho riflettuto che la soluzione che andavo cercando in quei mattini di un giugno lontano era molto semplice e si è imposta da sé, come spesso accade nella vita. Ho ripreso i miei passi e sono andato fischiettando a cogliere i lamponi ormai maturi.