sabato 29 marzo 2014

Ciottoli

 

“Umida resistenza, ed i saziati
tonfi dell’eco in ciottoli raggruma
l’acqua, in musi cretosi del suo fondo.”

ALFONSO GATTO,
Poesie 1929-1941, Desiderio di laguna

Dove il fiume scorre più lento, tranquillo nel suo greto antico che alcuni dicono fece da sfondo ad opere di Leonardo – il genio di Vinci dipinse qui certamente “La Vergine delle Rocce – dall’acqua cristallina ecco spuntare i ciottoli. Il velo verde della superficie, che appare come un largo fluire, è solo il riflesso delle sponde: quando ti chini vedi solo quelle pietre levigate, smussate da secoli di carezze e di furie.

Hanno diverse dimensioni e tanti colori: sono grigi, bianchi, verdi, viola, marroni; alcuni sono cosparsi di venature come le mani di un uomo. Ma tutti hanno quel curvo disegno che il tempo ha pazientemente lavorato, giorno dopo giorno, onda dopo onda.

Eccoli lì: puoi farne un argine per contenere l’esuberanza delle piene, un fermacarte da tenere in bella vista sopra la scrivania, un soprammobile contemporaneamente antico e modernissimo, lo puoi trasformare in un gatto o in una coccinella semplicemente dipingendolo con colori acrilici. Puoi lastricarci un vialetto o costruirci una casa, ci puoi giocare come un bambino.

No: soppesali, rigirali tra le mani, osservali e poi lasciali dov’erano. Quando un velo d’acqua li ricoprirà, rifletteranno il cielo.

 

Fondo del fiume a Cornate

FOTOGRAFIA © DANIELE RIVA

sabato 22 marzo 2014

Il mare

 

Ascolto il canto infinito del mare: è una voce che mi risuona dentro, è il sangue che mi pulsa nelle vene, è il palpito continuo del mio cuore. Anche quando, lontano dalla costa, percorro le pianure e le città che hanno montagne grigie sullo sfondo, io sento quel canto dentro di me.

È una forza meravigliosa, uno spettacolo che mi manca moltissimo. Quando passo dalle parti della stazione, vedo una ringhiera verde: mi dico tutte le volte quanto sarebbe bello se al di là di essa vi fosse il mare e non campi incolti, villette a schiera e, in lontananza, la ferrovia.

Il mare, che voglia di averlo qui vicino, di vederlo così vivo e animato: liscio come l’olio, spumoso per la brezza, mugghiante, agitato e spaventoso in burrasca, grigio e malinconico nei giorni di pioggia. Mi basterebbe solo saperlo lì, da qualche parte, dietro la finestra, sapere che la sera divide in due la luna dopo esser bruciato a lungo nel tramonto, come un secondo cielo. E invece no. Il mare è a più di duecento chilometri di autostrada. Non si respira salsedine nelle sere, lo iodio nei mattini di conchiglie. Non lo si sente mormorare, gridare, suonare un lamentoso flauto. Il mare - anche lui - è troppo lontano.

 

2002

 

Mare

IMMAGINE © ARTSB2C

sabato 15 marzo 2014

Dieci anni

 

Sono passati dieci anni. Dieci anni! E noi eravamo adolescenti, agognavamo quel traguardo dei diciott'anni che apre la porta della società. Ha proprio ragione Gozzano: quando si è vicini ai trent'anni è troppo doloroso volgersi indietro, verso un'età che ci pare d'oro, l'età in cui germogliava appena quella gioventù che adesso va a morire. È triste. È troppo triste. Eppure non possiamo fare a meno di pensare ad allora: è un imperativo masochistico che ci spinge ad andare a quei tempi con la memoria, attraverso la subdola ma irrinunciabile mediazione del ricordo.

Dieci anni! Ci sentivamo già grandi, noi allora, pronti ad innamorarci, a caderci tra le braccia e forse non eravamo che bambini. Ci siamo feriti perché non abbiamo saputo distinguere la realtà dal sogno, la verità dalla finzione del gioco e perdersi non è stato altro che venire improvvisamente scaraventati nel mondo degli adulti. Abbiamo fatto tutto da soli: abbiamo aperto noi stessi la portiera dell'auto in corsa, ci siamo sporti incuranti del rischio (o ignoravamo che l'amore comportasse dei rischi - non fisici o almeno non allora - ma psicologici) e siamo caduti, rotolati nella scarpata delle nostre illusioni irta di spuntoni.

Dieci anni fa! Dieci anni della nostra vita senza avere ancora imparato la lezione ( e mai la impareremo, probabilmente) nonostante l'avessimo provata sulla nostra pelle. Imperterriti continuiamo a illuderci e a cadere, per strade diversi, in tempi diversi, diversi noi stessi da quei due ragazzi non ancora ventenni che si amarono nell'estate magica e memorabile di dieci anni fa, mitica come gli Anni Sessanta, culto del ricordo di un'intera generazione.

E noi continuiamo a sbagliare perché ancora ci volgiamo indietro e non sappiamo dimenticare quei due ragazzi di dieci anni fa.

 

29 giugno 1992

 

Young-lovers-kissing

FOTOGRAFIA © ELLIOTT MARGOLIES

sabato 8 marzo 2014

La funicolare di Bergamo

 

La funicolare di Bergamo è un piccolo gioiello che affascina i turisti e che rende felici i residenti. Ho davanti a me un piccolo depliant in inglese che ne parla, che racconta di come il progetto di collegare la parte alta della città con quella bassa risalga al 1880 e di come il primo viaggio ebbe luogo nel 1887, il 20 settembre, giornata a cui Bergamo è molto legata, avendogli intitolato la via principale, nota anche come Sentierone. Il collegamento è di 240 metri sul lato destro e di 234 sul sinistro e supera un dislivello di 85 metri – da quota 356 a 271, con una pendenza del 52%. Il tragitto è coperto da due vagoni con capienza di 50 posti ciascuno in due minuti e quaranta secondi, durante il quale il panorama della città bassa si allarga e si avvicina oltre i finestrini, sulle rotaie che attraversano giardini fioriti.

Il viaggio l’ho fatto più volte, anche recentemente. Perché allora mi perdo a viaggiare immobile su queste carte, su questo biglietto? C’entra ancora la memoria. Ricordo gli anni in cui frequentavo il liceo a Bergamo, l’autobus numero 1 che vedevo in attesa fuori dalla stazione con l’indicazione Città Alta-Funicolare, e le volte che saltava una lezione e si saliva a piedi per Via Sant’Alessandro fino a raggiungere Porta Sant’Alessandro: da lì si entrava nelle vecchie stradine fino a Piazza Vecchia. Poi si comperava un trancio di pizza o di focaccia e si scendeva con la funicolare. Guardo quel biglietto verde, che adesso costa 1,05 euro e allora sarà stato duecento lire, guardo quella piantina di Bergamo Alta e riprovo l’allegria dell’adolescenza, cancellando gli anni con un colpo di spugna…

 

sabato 1 marzo 2014

Costumi di Carnevale

 

Carnevale mi riporta un vago senso di tempo perduto, potrei definirlo "proustiano" (naturalmente, la famosa madeleinette inzuppata nel tè, capace di generare il ricordo).  Erano i giorni  dell'infanzia, gli anni spensierati delle scuole elementari. Ricordo i costumi che indossai nei giovedì grassi di quegli anni, felici come sanno esserlo solo i giorni del ricordo.

Il primo fu un costume di Arlecchino confezionatomi con grande maestria da mia madre utilizzando ritagli di stoffe avanzate nella lavorazione del nostro maglificio (credo fosse rayon o un tessuto simile acrilico, molto usato sul principio dei Settanta). Avevo anche un cappellino bianco da marinaretto, cui tenevo molto.

Il secondo costume me lo comprò papà: un avveniristico completo da astronauta con tanto di casco, il tutto realizzato in una sorta di plastica. Era invidiatissimo dai miei compagni e questo mi dispiaceva un po'.

Infine ci fu un classico completo da Robin Hood, negli anni un po' più "maturi": calzamaglia gialla, casacca sfrangiata e berrettino verde - premonizione di quando sarei diventato alpino, molti anni più tardi. Avevo un arco con frecce a ventosa che poi sostituii con rami di arbusti tagliati in giardino (avevo cercato a lungo quelli più dritti). Già allora però sognavo di usare un'altra arma: la penna. A quel periodo risale la mia prima poesia, dedicata alla Valle d'Aosta. Avevo in mente un'opera composta  da venti poesie: una per ogni regione.

Alle medie non si andava in maschera, la mia memoria riporta immagini di martelli di piuma e clave di plastica vuota con cui ci battevamo durante la ricreazione. Qualche teppista in erba le riempiva di sabbia - lasciavano certi lividi! Ma l’ingenuità dei costumi era ormai svanita: poi venne il periodo in cui a Carnevale si andava per strada a lanciare farina e a imbrattare con la schiuma da barba. Una barbarie che odiavo e da cui mi tenevo accuratamente in disparte. Stavano divampando già gli anni dell’adolescenza…

7 febbraio 1993

 

arlecchino

PABLO PICASSO, “ARLECCHINO”