sabato 22 settembre 2018

Un pittore paesaggista


Come si comporta un pittore paesaggista che si appresta a dipingere una sua nuova opera? Innanzi tutto, sceglie un’immagine da ritrarre: può essere stata un’ispirazione improvvisa a convincerlo del soggetto, oppure vi ha meditato a lungo; o ancora è stato il caso a portarlo là dove il paesaggio, per la sua bellezza o per una particolarità, lo ha colpito tanto da fargli balenare l’idea di un nuovo quadro.

Comunque, ora ha il suo tema. Ne schizza su un foglio il disegno oppure scatta una fotografia, ma questo secondo caso implica un passaggio tecnologico che snatura la totalità della sua opera e la rende un’imitazione anziché un’interpretazione. Ecco ora il pittore davanti alla tela bianca, vergine, posta su un cavalletto. Impugna un carboncino e riporta il disegno che ha schizzato sulla carta. Qua e là aggiunge o toglie qualcosa, a seconda di come la memoria gli suggerisce; magari ogni tanto chiude gli occhi per rivedere il paesaggio nella sua mente.

Adesso è il momento di prendere la tavolozza e i pennelli: inizia a stendere i colori dello sfondo, l’azzurro del cielo, il verde dei prati in primo piano, il grigio-viola delle montagne. È probabilmente la parte più noiosa del lavoro, questa preparazione, ma già sulla tela comincia ad apparire l’anima del paesaggio. Il bello viene dopo, quando passa a pennelli più fini e delinea figure che daranno spessore al quadro: un mazzo di stelle alpine, uno steccato, due mucche che pascolano, un gruppo di larici. A questo punto passa a pennelli ancora più piccoli e dipinge i particolari più minuti: il ricamo sulla fascia di cuoio dei campanacci delle mucche, le pigne delle conifere, i semi delle stelle alpine, il movimento di una cascatella là sullo sfondo, le vene del legno dello steccato, un nevaio sulla montagna più lontana, un rifugio seminascosto, ciuffi d’erba...

Quando scrivo un racconto, spesso mi comporto come quel pittore paesaggista: può essere un’ispirazione improvvisa a colpirmi, come una notizia letta sul giornale o un ricordo uscito dal dimenticatoio o da un discorso tra amici, un brano letto in qualche libro. Oppure mi lambicco il cervello cercando qualcosa che si possa raccontare, ripasso gli avvenimenti di cui sono stato protagonista negli ultimi tempi o ancora risalgo a periodi più lontani, ad amici e personaggi che ho conosciuto, a eventi cui ho assistito. O ancora fantastico, mi avventuro nei territori dell’assurdo, immagino che il tempo sia passato in modo diverso o non sia passato o ancora trasporto fatti di adesso nel passato o nel futuro, tenendo sempre uno sguardo su Buzzati, il mio autore di racconti preferito.

Viene il momento di effettuare lo schizzo: non disegno, scrivo. E generalmente scrivo una poesia in endecasillabi, da usare come traccia; più raramente stilo un piccolo schema a punti su quello che nel racconto deve accadere. A questo punto il pittore riporta lo schizzo sulla tela. Io accendo il computer, apro un programma di scrittura e inizio a infilare parole – un tempo prendevo un foglio bianco, una penna e cominciavo a lasciare tracce d’inchiostro sotto forma di frasi. In questo caso avrei probabilmente scritto: “Come si comporta un pittore paesaggista che si appresta a dipingere una sua nuova opera?”. Sembra facile, ma comporre l’incipit richiede tempo: è una delle parti più importanti, soprattutto in un racconto breve, è la chiave con cui si entra leggendo o il biglietto da visita che chi scrive porge a chi si troverà a leggere. E questa è una differenza tra il narratore e il pittore.

Poi il lavoro procede però parallelo: se là si prepara lo sfondo, qua si scrive tutto il racconto. Se là si passa alle figure, qua si rilegge e si introducono frasi e paragrafi interi. Quando il pittore passa a rifinire, dipingendo i dettagli, il narratore fa altrettanto limando e correggendo, cambiando un aggettivo, scegliendo un diverso sostantivo. Quando l’ultima pennellata e l’ultimo punto sono posti all’opera, pittore e narratore osservano soddisfatti quanto hanno prodotto.


FOTOGRAFIA © MORIZA

sabato 15 settembre 2018

Primo giorno di scuola


È il primo giorno di scuola in molte regioni. Ricordo il mio primo giorno al liceo classico, o meglio al ginnasio: era il venti settembre del 1978. “Sei vecchio! Sei vecchio!” sento voci alzarsi da chi sta leggendo questo mio scritto. Non sono vecchio... era un’altra epoca. Infatti quello era il primo anno in cui le scuole cominciavano a settembre: le lezioni prima di allora iniziavano invariabilmente per tutti il primo giorno di ottobre. E non era quella l’unica differenza: per esempio, non c’erano i cellulari né Internet (“E come facevi a copiare durante i compiti in classe?” la solita vocina chiede; non ti preoccupare, c’erano mezzi molto efficienti e più difficili da scoprire, tipo scrivere in miniatura tutte le regole grammaticali greche in parti nascoste del vocabolario, e il Liddell-Scott aveva una magnifica appendice sui nomi geografici che sembrava fatta proprio apposta). Poi la televisione: trasmetteva a colori regolarmente da un anno o poco più e c’erano solo pochi canali, i due della RAI, la Svizzera, Capodistria, Telemontecarlo, qualche tivù privata agli albori. E non c’erano i videogiochi (“Oddio, e come passavate il tempo?”, passava, passava, te lo assicuro... e meglio di adesso: libri, amici, passeggiate, partite a pallone, a tennis, le ragazze...)

Comunque, è il mio primo giorno alle superiori, il 20 settembre 1978: prendo il treno e raggiungo Bergamo, a piedi risalgo dalla stazione verso l’istituto, un po’ intimorito dall’essere per la prima volta solo in città, ma anche imbaldanzito per esserlo. Arrivo all’ingresso, dove già ci sono decine e decine di studenti. Indosso un paio di jeans e una camicia bianca, sopra ho un gilè verde scuro lavorato a maglia (non fare quella faccia: stavano quasi finendo, ma erano pur sempre gli Anni ’70). Ho una borsa anch’essa verde scuro di velluto a costine. Una borsa, sì: la moda degli zaini che uniforma ormai tutti gli studenti allora non c’era e ognuno aveva qualche cosa di originale: chi la borsa, chi la tracolla militare, i ragazzi di II e III liceo classico, già maggiorenni o quasi, osavano addirittura delle ventiquattro ore. Molti avevano la borsa che regalavano i negozi di articoli sportivi: praticamente un cubo di tela plastificata con le maniglie. Goggi Sport, essendo a Bergamo, andava per la maggiore. Quel primo giorno però non c’erano ancora libri a gonfiarla: solo qualche quaderno e un diario. Avviso ai naviganti del nuovo millennio: la Smemoranda non esisteva, c’era un normale diario, oppure qualcosa con i fumetti. Non ricordo bene come fosse, è andato perso nel corso degli anni; so che la scuola ci fornì di un piccolo libretto con tanto spazio vuoto e qualche pensiero: comunque, pochissimi lo usavano, preferendo diversificarsi e non appartenere alla massa – tutto il contrario di adesso, lo so.

Dunque, entrai nell’istituto, chiesi al bidello – un omone quasi obeso e dall’aspetto buono come il pane – dove potessi trovare la quarta ginnasio e lui mi indirizzò al secondo piano. Salii le scale con la sensazione timorosa e curiosa che prova Alice nel Paese delle Meraviglie. In cima alle scale, sulla destra, si apriva un’aula: sul cartellino c’era scritto “Classe IV Ginnasio”. La mia. Avrei scoperto dopo l’intelligenza della disposizione: le aule erano disposte in ordine crescente, solo i bagni intervallavano la I e la II liceo classico. Nello stesso atrio c’erano anche un paio di classi dello scientifico. La porta, una spessa lastra di vetro o simile materiale satinato, era aperta: entrai e potei fare conoscenza con i miei primi compagni di classe. Mi sedetti in silenzio in un banco vuoto; dall’ampia vetrata si vedevano i tetti della città, qualche campanile svettava. Rimasi a guardare fuori finché non arrivò un ragazzo a sedersi nel posto vuoto accanto al mio. “Francesco” si presentò. “Daniele”, risposi. “Di dove sei, da dove vieni” e suonò subito la campanella. Arrivò la professoressa di Lettere, una signora ormai sul limite della pensione – era il suo ultimo anno, infatti – precisa identica a una zia di mia madre. Si sedette, ci salutò, disse qualcosa a proposito del nuovo corso che avrebbero preso le nostre vite e cominciò un lungo appello. Fu così che venni a sapere i nomi dei miei compagni: molti di loro avrebbero condiviso cinque anni della mia vita, altri si sarebbero persi per strada già nei primi giorni e nei miei primi mesi, anche Francesco, che fu costretto a trasferirsi a Torino per impegni di lavoro del padre. E Luca, che era da solo nel banco dietro di noi, scalò avanti. Non ci saremmo più separati fino alla maturità, condividendo compiti, appunti, penne, discutendo dei nostri affari, delle nostre ragazze, aiutandoci durante i compiti in classe, che a Bergamo si chiamavano, chissà perché, “esperimenti”.

Questo dunque fu il primo giorno al ginnasio, senza conoscere nessuno, in una città che è sì la mia, ma che non conoscevo allora così bene. Quando, a mezzogiorno e mezzo, salii sul treno che mi avrebbe condotto a casa, avevo gli orari delle lezioni dell’indomani e una litania che già mi ronzava in testa: rosa, rosae, rosae, rosam, rosa, rosa... rosae, rosarum, rosis, rosas, rosae, rosis...


Scuola

FOTOGRAFIA © L’ECO DI BERGAMO



sabato 8 settembre 2018

Osteria “Il Bocconcino”


Nel taschino della camicia c’è qualcosa che mi da fastidio: lo tolgo, un pezzettino di carta deteriorato dal lavaggio. Riesco a ricostruirlo, a leggerne la scritta, per quando sbiadita e gualcita: “Osteria Il Bocconcino”. E i ricordi iniziano a sgorgare come acqua da una fonte di montagna. Roma. Un caldo lunedì di maggio, la camicia a maniche lunghe proteggeva la mia pelle sensibile scottata dalla permanenza al sole il giorno prima sulla spiaggia di Latina. Fuori, a duecento metri, il Colosseo…

Un localino raccolto con tavoli all’aperto oltre i vasi con i pitosfori. Una tipica osteria romana, con le tovaglie a quadri e luci soffuse. Fuori, oltre la porta aperta, la gente che passava per Via Ostilia nel chiarore della primavera romana. Nella tranquillità del ristorante il primo pomeriggio passava languido e indolente con il trascorrere delle portate: l’antipasto di salumi, corallina, bruschette di coratella, poi i tagliolini con verdure e pecorino, l’arista con prugne, l’agnello con scarola e uvetta. La ragazza dietro il banco portava la sua eleganza di gazzella qua e là per la sala.

Dopo il caffè, il sole caldo della Capitale, la luce viva e abbagliante che accompagnava il traffico nella strada che corre intorno al Colosseo. Passeggiare lentamente per Via Capo d’Africa e poi per Via dei Santissimi Quattro verso San Giovanni in Laterano fu un’impagabile emozione. Come se nell’aria risuonassero “I pini di Roma” di Respighi… Le pietre stesse parlavano della grandezza della città, raccontavano aneddoti di condottieri antichi e di gente qualunque, il vetturino, il tassinaro, Commodo e Nerone.

Quel bigliettino da visita lacero e consunto è stato la chiave che ha aperto un mondo di ricordi…