sabato 9 marzo 2019

La coperta di Linus


È la tua voce che sento, la tua bella voce appena un po’ nasale. Mi invita da lontano e io non riesco a distinguere se tale distanza sia spaziale o temporale, se tu mi chiami dalle isole Andamane o da un giorno perduto nell’estate di qualche anno fa, se tu mi stia aspettando o se invece mi aspettavi e l’occasione è oramai perduta. Sono Odisseo ora e la tua voce è quella melodiosa di una Sirena: io legato all’albero maestro, i miei compagni alacri ai remi, al timone, alle corde, con la cera versata nelle orecchie per non poterti udire, per non impazzire d’amore come invece faccio io. E tu chiami e chiami e canti e mi inviti e sussurri il mio nome...

Mi sveglio. Comprendo che questi sogni sono una specie di coperta di Linus per la mia timida insicurezza. Una coperta troppo corta però, che mi riscalda solo in minima parte, che mi lascia indifeso, allo scoperto di sguardi. Poteva andarmi peggio, potevo essere Charlie Brown... Sono le quattro, l’alba è ancora lontana. Nel buio un vago chiarore disegna ombre e riflessi, la luna si diverte a giocare con lo specchio, quello specchio vuoto d’amore che un tempo accoglieva le voluttuose cascate dei tuoi capelli, i nostri visi vicini, i baci, le scintille della passione. Ora non mi restano che questi sogni ricorrenti, non mi resta che il tuo ricordo: l’altro giorno si è presentato improvviso dalle parti di Via Vitruvio. Voltavi le spalle ai marmi bianchi della Stazione Centrale, alle tende rosse dell’Hotel Gallia: eri bellissima ed elegante, vestita come quel giorno che partimmo per Venezia all’inseguimento dei pittori manieristi nei musei della città lagunare. Il cielo era di piombo fuso, identico. Ma dovevo lavorare, la mia tracolla nera mi batteva sull’anca, mi ricordava pressante che dovevo andare in ufficio, che c’erano pratiche e atti ad attendermi sulla scrivania. Ho rivolto anche un gesto di saluto, fugace, vergognandomi un po’. Ma il tuo ricordo è rimasto con me tutta la mattina, mi ha scortato sui documenti, mi distraeva, mi faceva commettere errori.

E dunque non sei più che ricordo. Il sogno in effetti altro non è che una elaborazione di ricordi e desideri. Sei come quei fiori che si conservano nelle scatole e lentamente seccano per poi sfarinare lasciando una minuta polvere. Il velluto dei petali diventa carta e poi cenere. Non ho che scaglie di te, frammenti che ricostruiscono com’eri. Ma l’amore non vive in terra arida e sterile, vuole una terra buona perché il suo fiore possa sbocciare e fiorire. Forse è seme, di certo non è seccume. Mi volto sul fianco, magari riesco a riprendere sonno. Magari riesco anche a sognarti e se le tue labbra sfioreranno le mie, mi accontenterò di quella languida illusione.

2011


IMMAGINE © SCHULZ/PEANUTS

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