sabato 23 aprile 2011

L’alba


Non potevano dormire quella notte, i congedanti. Aspettavano ansiosi che venisse l’alba: il nuovo sole avrebbe portato la libertà, una svolta nelle loro vite dopo un anno trascorso lontano da casa.
Cominciava “la notte”. Non potevano dormire, i congedanti. L’adrenalina, l’ansia, l’angoscia consentivano solo brevi sonni intermittenti. E parlavano, sottovoce.

Finalmente dalla grande finestra della camerata, che dava sul giardinetto interno, a Oriente, entrò la prima luce. «È finita! È finita!» si sentiva gridare, «Finita! Finita!» replicavano altre voci, «È finita!» gridò anche Andrea entusiasta. Si lavò e si vestì, c’era da aspettare le dieci, l’incontro con il comandante.
Fece colazione, pensando che per l’ultima volta avrebbe avuto quella scodella di metallo, quei biscotti secchi confezionati in cubi di stagnola, quel succo di frutta da stappare con il manico della forchetta.
E poi fu l’adunata, l’ultima. I congedanti erano vestiti in borghese, con il cappello alpino in testa, sull’attenti mentre suonava l’inno, mentre la bandiera era issata sul pennone.
«Rompete le righe!», l’ultimo comando. Quindi andarono in camerata a prendere materasso e lenzuola per riconsegnarle in magazzino.  «È finita!»

Il comandante li aspettava per le dieci nel salone ricreativo, o meglio i soldati aspettarono lui e il maggiore Pavone. Vennero con i congedi, ed uno per uno firmarono e furono salutati calorosamente. Il colonnello Tripodi, temutissimo, si rivelò cordiale - anche con Andrea, che conosceva poco, essendo rimasto alla “Leone Bosin” per soli quaranta giorni, comprendendo i dieci del campo estivo a Ponte di Legno.
Il maggiore Pavone tenne un discorsetto sul futuro, su quello che li aspettava fuori di lì, su quello che ci si aspettava da loro, e consigliò di iscriversi all’Associazione Nazionale Alpini.
Furono liberi di andare con il tanto desiderato foglio arrotolato in mano. Corsero in camerata a prendere le borse…

Andrea Lievi stava per varcare per l'ultima volta il cancello della caserma: tra lui e la libertà c'erano ora solo pochi metri. Sostò davanti a un autocarro militare parcheggiato nel cortile e pensò a tutti gli spostamenti che aveva fatto con quei mezzi.
Era stato trasportato sulle jeep in dotazione all'ufficio: alla Posta, a Bolzano, perfino a Trento; il maresciallo Illica prima e il maresciallo Peruzzello poi,  si arrabbiavano con il reparto che mandava la vettura al Presidio: talora avevano inviato una Fiat AR57, risalente, come diceva la sigla, al 1957, invece della normale AR76. Qualche volta avevano persino assegnato all'ufficio un furgoncino 900 - «Ci hanno preso per degli ambulanti» aveva commentato il maresciallo Peruzzello. Si infuriò quando vide entrare nel cortile un furgone Fiat 238: «La prossima volta ci mandano un camion!» gridò e poi si precipitò a lanciare improperi nel telefono. 

Andrea ricordò le fredde mattine sui camion, soltanto due fortunatamente, per recarsi al poligono di tiro di Salorno: tutti seduti dietro, nel cassone telonato e con il fucile tra i piedi. Ricordò il camion che lo aveva trasportato al campo estivo di Ponte di Legno: era capomacchina, seduto al fianco dell'autista nella cabina di guida che avevano dovuto riscaldare per il freddo fuori stagione che regnava al Passo delle Palade.  E ricordò con una punta d'orgoglio la volta che salì al Passo del Tonale con l'Alfa 33 blu del generale e per la strada più di un capomacchina lo salutò, forse ingannato dal sole.
Era giunto finalmente al passo carraio: salutò la guardia che gli aprì il cancello, si voltò indietro ancora una volta a guardare i muri tinteggiati di giallo e marrone, la bandiera che sventolava nel cielo incerto di aprile sul pennone nel piazzale dell’adunata, i camion che viaggiavano per i viali della caserma, la corvée che ramazzava i marciapiedi, la vita che continuava immutabile in quel piccolo mondo. 

Uscì e si tolse il cappello con la penna nera, avanzò verso la vita e si rese conto solo allora di aver ritrovato la libertà, ne gustò subito il sapore salendo per la stradina sterrata che conduceva alla strada principale.
Si chiese che cosa gli restasse impresso nel cuore di tutto quell'anno trascorso, oltre al cappello da alpino che custodiva gelosamente. Guardò il fiume scintillante sotto il sole del mattino: non l'aveva mai visto così neanche quando lo attraversava al ponte di Santo Spirito tornando dalla Posta; lo vedeva con gli occhi della libertà e sembrava ancora più bello, con le nuvole cerulee che vi si frantumavano. Trovò la risposta al quesito che si era posto: “Mi resta l'esperienza di aver conosciuto amici veri - fratelli - nel forzato convivere di un anno”.



La Caserma “Leone Bosin” di Merano, ora abbattuta  © DR

4 commenti:

Roscio ha detto...

L'esperienza di assaporare la libertà dopo un periodo di costrizioni, qualunque esse siano, è impagabile. Un racconto in cui tanti di noi possono riconoscersi e, per fortuna, potranno riconoscersi meno le attuali generazioni.

DR ha detto...

Eppure adesso qualcosa si rimpiange, non fosse altro la gioventù di allora, sebbene anche nel ricordo si avverta ancora quel senso di oppressione - la prima volta che oltrepassai la sbarra a righe bianca e rossa del passo carraio della caserma Edolo sentii proprio mancarmi il fiato. Poi, il tempo passa...

Adriano Maini ha detto...

Non feci il servizio di leva, ma ricordi vivi come questi appartengono a tanti amici e conoscenti. In più, per strana coincidenza, la location mi riporta alla partenza di mio padre (cameriere tra Passo della Mendola e Bolzano in quel meantime) per la guerra ...

DR ha detto...

posti meravigliosi: al Passo della Mendola si gelava letteralmente - a metà giugno! - da lì scendemmo al campo estivo di Ponte di Legno, fermandoci nella bellissima Cles a bere un caffè con la complicità di un sottotenente (qualche anno dopo il centro storico di Cles, tutto in legno, andò distrutto in un incendio)