sabato 22 settembre 2012

Nove giorni all’alba

 

Andrea Lievi entrò nella camerata buia, rischiarata solo dalle luci di guerra che diffondevano un chiarore bluastro così da illuminare sufficientemente senza disturbare il sonno. Si spogliò in fretta, controllò che il letto fosse stato fatto normalmente e che nessuno avesse eseguito lo scherzo del "sacco" ripiegando le lenzuola a metà in modo tale che non ci si potesse infilare. Non c’era neppure dello zucchero, solo un palloncino legato alla testiera da qualche buontempone. Il letto era stato fatto a regola d'arte. Era una buona abitudine invalsa in quel plotone quella di far trovare pronta la branda a chi tornasse da una licenza.
Andrea depose la borsa nell’armadietto e appese il giubbino di jeans a una gruccia. “Mi mancherà…” pensò di quello stretto cubicolo di metallo grigio. “In fondo è stata la mia casa per tutto questo tempo. C’erano i suoi ricordi: biglietti del cinema, una cartolina spedita da un’amica incollata con del nastro adesivo appena sotto lo specchio, ombrellini decorativi di cocktail, la locandina di un night club dove non era mai stato, la pubblicità di un locale del centro, il Pub One. E un contenitore realizzato con la scatola di cartone del profumo Brut, dove svettavano il pettine e lo spazzolino.
Fuori il piantone cercava di passare il tempo leggendo un fumetto. Se fossero arrivati il capitano Del Grano o il tenente Pulvirenti sarebbero stati guai… Ma tutto era tranquillo, la luce entrava riflessa nel corridoio delle camerate mischiandosi con il riverbero blu delle fioche lampade di guerra. Andrea si mise il pigiama e andò in bagno con il suo necessaire color crema.
Era mezzanotte quando si coricò. "La mia ultima licenza" pensò, "domani in ufficio sposterò la bandierina a 51 giorni passati a casa e a nove soltanto quella dei giorni al congedo". Era una specie di gioco dell'oca che qualcuno aveva ricavato da una scatola di cartone che aveva contenuto carta per ciclostile: vi erano disegnate tante caselle quanti i giorni di leva da compiere e un prospetto con i giorni di licenza; le bandierine erano spilli con un triangolino di carta colorata. Il suo era verde; quello di Dossi, il suo collega, che ora stava dormendo nella branda sotto la sua, era gialla. Tra di loro c'erano sessantadue giorni di differenza, ma Andrea non faceva pesare quella sua anzianità, anche perché in ufficio comunque comandava lui, in virtù del grado di caporale e della maggiore esperienza, superiore anche a quella del maresciallo Peruzzello, subentrato nel corso dell'anno al maresciallo Illica.

Suonò la sveglia. Andrea guardò l'orologio: le sei e trenta. Balzò in piedi e andò a lavarsi; gli altri stentavano ad alzarsi. Quando tornò trovò un sergente che non conosceva: stava facendo la ramanzina a qualcuno che aveva trovato a letto. Andrea salutò Dossi e gli altri commilitoni che armeggiavano negli armadietti vicini.
Passò a far colazione nella mensa provvisoria, ricavata in un enorme garage. La mensa originaria, dove era riuscito a pranzare solo per pochi giorni dal suo arrivo in quel battaglione era in fase di restauro. Da lì raggiunse l'ufficio attraversando una parte piuttosto nascosta della caserma, passando davanti alla casetta del sarto, al magazzino delle trasmissioni e al deposito all'aperto di camion, cucine da campo, rimorchi e spazzaneve. 
Andrea lavorava alla delegazione staccata del Presidio militare. Era un'abitazione a un piano, dipinta di verde chiaro, che in passato era stata il Circolo dei sottufficiali. Di fronte ad essa un'analoga casetta, il Nucleo Carabinieri, dove lavorava Ferrola, altro compagno di camera, e dove prima di lui aveva lavorato Miglio, suo inseparabile amico per tutta l'estate e l’autunno. Erano quattro mesi già che Miglio si era congedato. "Tocca a me, ora" pensò Andrea e salutò Ferrola che arrivava dalla stradina che lui aveva percorso pochi istanti prima. Tra le due abitazioni c'era un piazzale asfaltato e una ramata con cancelletto separava i due uffici dal resto della caserma. Un cancello scorrevole dipinto di verde dava accesso alla strada di fronte all'ippodromo: da lì loro, che possedevano le chiavi, potevano entrare e uscire indisturbati tutte le volte che volevano. Andrea, con la sua prudenza, diventata ormai proverbiale tra i compagni, ne aveva approfittato solo una volta, una domenica mattina in cui erano venuti a trovarlo i suoi genitori con degli amici. Dossi e Ferrola facevano lunghe fughe notturne e nei week-end tornavano addirittura a casa.
Era una base da cui partire, un luogo sicuro che gli altri della caserma non avevano: qualche sera vi si trovavano anche, con qualche amico fidato.

In ufficio non c'era nessuno, il sole entrava caldo dalle finestre senza tendine della sala d'aspetto e disegnava le ombre sul pavimento di palladiana. Aspettando che arrivassero Dossi o il maresciallo, Andrea iniziò a risolvere i giochi della Settimana Enigmistica. Era il suo hobby: sapeva risolvere quasi tutti gli enigmi, anche quelli difficili, e suscitava ammirazione in tanta gente questa sua abilità, frutto di una buona intelligenza, certo, ma anche di anni di cultura classica e di un costante aggiornamento.
Intanto nella strada gli autobus si susseguivano sbuffanti e frotte di ragazzi raggiungevano il centro. Andrea notò una ragazza carina: aveva i capelli  biondi e ondulati e un grazioso nasino all'insù, indossava dei jeans molto aderenti che le mettevano in risalto le forme. Dopo qualche minuto un autobus se la portò via verso i negozi del centro.
Pensò che questo fatto sintetizzava bene la loro condizione di soldati: vivevano come dietro un vetro - una gabbia di cristallo - e al di là di questa la vita scorreva normalmente, con i suoi amori e i suoi dolori. Ma dentro la gabbia vigevano regole differenti, la vita stessa sembrava sospesa, condizionata da un’attesa continua del congedo: si contavano i giorni, o per meglio dire, secondo il gergo militare, le “albe”; si percorreva una gerarchia salendo di gradino ad ogni scaglione che se ne andava. Da “nipote di terza” si diventava nel corso di undici mesi “La Max”, quello che Andrea era adesso. Tra qualche giorno, effettuato il prelievo di sangue obbligatorio, sarebbe diventato “fantasma”, quello che c’è ma non si vede, detto anche “borghese”.
In quel momento arrivò Dossi: entrò nell'anticamera e lasciò stancamente giacca e cappello sull’attaccapanni. Non amava molto la vita militare, lui. Disprezzava quel cappello con la penna che Andrea invece amava, anche per tradizione familiare. Diceva sempre che al congedo l’avrebbe buttato in autostrada. Dossi aveva portato a Merano la sua Alfetta 2000 blu. Era sempre pulita e tenuta con cura, Andrea spesso elogiava questo comportamento dell'amico, lui che invece non dedicava molto tempo alla sua auto e che non si intendeva molto né dei motori né delle ultime novità. Dossi invece sapeva citare qualsiasi dato delle auto sul mercato: prezzo, cilindrata, consumi, se avessero la trazione anteriore o posteriore, numero dei cavalli-vapore e così via.

Dossi sacramentò perché con la coda dell’occhio aveva scorto la Visa azzurra del maresciallo Peruzzello fermarsi davanti al cancello: uscì e fece scorrere la lunga inferriata verde. Non era necessario salutare militarmente - erano tutti comportamenti che si apprendevano osservando gli “anziani”, Andrea imparò dal suo collega Farina, Dossi da Andrea. Solo davanti agli ufficiali si portava la mano alla fronte: il tenente colonnello Franchi, per esempio, che era stato titolare del Presidio e che venne a reggere la Delegazione nel mese vacante tra i due marescialli; o il colonnello Bon, suo amico, che qualche volta venne a fargli visita; o quando si incrociava il maggiore dei Carabinieri che giungeva a ispezionare il vicino Nucleo.
Il maresciallo, un casertano piccolo e robusto - veniva da Marcianise - sembrava, come ogni giorno, aver dormito con la divisa addosso. Si sedette nel suo ufficio e chiamò i ragazzi per i compiti da svolgere quel giorno.
«Lievi, oggi dovrebbe arrivare il tuo sostituto: spiegagli un po’ quello che deve fare, mostragli gli archivi e… insomma istruiscimelo bene perché tu sai tutto qui…» la sua voce cavernosa rimase sospesa nell’aria mentre tossiva, «si chiama Mair, è un altoatesino». Poi guardò Dossi e spalancò un ampio sorriso: «Lo vogliamo congedare il tuo amico qui? E allora prepara l’ordine per il prelievo di sangue, ciclostila tutto ché poi io faccio firmare al generale”. Spianò il quotidiano “Alto Adige” sulla scrivania, segno che la conversazione era terminata e che i ragazzi potevano mettersi al lavoro.

Johann Mair arrivò verso le dieci. Era un ventenne allampanato con i capelli irti e un’aria da apprendista stregone. Disse che abitava davanti al passo carraio della caserma, e quindi cenava in famiglia tutte le sere, il sabato e i giorni festivi. Andrea lo trovò subito simpatico, lo mise a proprio agio mostrandogli i locali del Presidio: l’anticamera, che, con divano e poltrone, fungeva da sala d’attesa per eventuali ospiti; l’ufficio del maresciallo, con il telefono da usare per comunicare con l’esterno; l’ufficio degli scritturali, con due scrivanie, due macchine per scrivere e due telefoni per comunicare con i numeri interni; la sala degli archivi, con i classificatori di metallo, il ciclostile e la macchina tritadocumenti; quello che era stato il gabinetto medico, quando le visite di controllo erano di competenza presidiaria, e ora era una sorta di ripostiglio con un lettino da ambulatorio; il bagno. Quei locali un tempo lontano erano stati il circolo sottufficiali.
Dossi, che aveva battuto a macchina, ricopiando dalla vecchia circolare, l’ordine per il prelievo di sangue obbligatorio per il congedo del 3° scaglione ‘88, mostrò al nuovo arrivato l’uso del ciclostile: “Molto bene” pensò Andrea, “in fondo era Dossi che doveva lavorare con Mair, lui ormai era praticamente un ”borghese”.


 

Alla mia scrivania

Nessun commento: