sabato 14 aprile 2018

Casa contadina

Era una casa contadina, in una corte di paese. La chiamavano "la curt di scighèzz",il cortile delle falci. Era lì che abitavano i miei prozii, la sorella di mio nonno e suo marito. Il freddo di un giorno che portava febbraio alla fine era nell'aria e io ci arrivavo con la strafottenza dei miei diciott'anni e con la mia macchina nuova.

Entrai. La luce si fece buio e dopo un po' gli occhi si abituarono alla penombra: c'era una tinozza piena d'acqua, per lavare il bucato e naturalmente anche per farci il bagno; il pavimento di cotto scheggiato era bagnato sulle sue ruvide ombre di coccio. Dalle travi pendevano grappoli di pannocchie. Al centro della stanza una stufa ardeva legna, accanto erano ammonticchiati i ciocchi da ardere. Sul tavolo una bottiglia di vino, quel Barbera che stavo bevendo e che lasciava scuro il bordo del bicchiere che mi era stato riempito e messo davanti.

Appese alle pareti, accanto alla finestra, due gabbie: in quella metallica c'era un canarino giallo; in quella di bambù un merlo maschio con la sua bella livrea nera. In un angolo ronzava un vecchio frigorifero Minerva; sulla madia un vecchio televisore in bianco e nero. Sulla credenza le fotografie incorniciate: la figlia suora in un giardino di Torino, il figlio ora sposato, tutti più giovani, tutti con il vestito delle grandi occasioni. Più in alto, una mensola con il caffè nella sua scatola di latta e la bottiglia della grappa.

Lo zio, con il cappello e il gilè, le pantofole ai piedi, si scaldava nel parlare di concimi e trattori, di legna da comprare e di scope fatte con i rami di salice, di un contratto contadino negoziato per una notte intera. Lo faceva con quel dialetto brianzolo che intendo perfettamente ma che non parlo, neppure adesso, a distanza di tanti anni da quel giorno di febbraio.

La zia, lì vicino, rideva e lo frenava. Forse era così la felicità, mi venne da pensare vedendo la sua allegria. O forse no: i figli lontani, la solitudine, gli acciacchi. Meno male che ogni tanto arrivavano i nipotini ad allietare i nonni.

Poco oltre l'ingresso l'attaccapanni a muro: vi erano appese la tuta da lavoro, una sciarpa e una camicia insieme a tutti i dolori di una vita di campagna da indossare sopra i ricordi per uscire. Su un soppalco le scarpe, tutte in fila, e le mezze damigiane. Sulla porta il calendario, con tutti i santi da pregare e le lune per l'orto e per il vino. Uscimmo, era ora che concludessi la mia visita.

Fuori, nella piccola aia davanti all'uscio, il vecchio carretto pieno di legna e granturco e il trattore nuovo, il rimorchio che il vecchio trovava difficile da usare. Si poteva capirlo, abituato ad arare con l'asino e l'aratro. Incassato nel muro uno specchio rovinato rimandava i riflessi di quella vita contadina, i due piani con i balconi e i ballatoi che sovrastavano la casa, le travi di legno, vecchi zoccoli sfasciati, altre centinaia di pannocchie intrecciate a mazzi, sacchetti di concime e fertilizzanti, ceppi, piante grasse.

Più in là c'era la stalla: l'asino era rimasto solo, abbandonato dalle vacche. A fargli compagnia rimanevano l'erpice e i bastoni, aratri, zappe, paglia, qualche sedia rotta. Il progresso aveva rovinato anche lui, povero ciuco.

Quando salii in macchina, dopo aver già messo in moto, il vecchio mi fermò e riprese a parlare. Non voleva restare solo: il pomeriggio d'inverno era troppo lungo per lui. Mi sembrava di essere appena uscito da un libro di Pavese, di essere lì con il padre di Talino in "Paesi tuoi", con il Valino in "La luna e i falò". Lo salutai ancora e gli dissi "Torno presto, Carlìn, torno presto..."


1983


Heyyward

MARK STEWART, “SALOTTO DI CASA HEYWARD”



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