sabato 15 settembre 2018

Primo giorno di scuola


È il primo giorno di scuola in molte regioni. Ricordo il mio primo giorno al liceo classico, o meglio al ginnasio: era il venti settembre del 1978. “Sei vecchio! Sei vecchio!” sento voci alzarsi da chi sta leggendo questo mio scritto. Non sono vecchio... era un’altra epoca. Infatti quello era il primo anno in cui le scuole cominciavano a settembre: le lezioni prima di allora iniziavano invariabilmente per tutti il primo giorno di ottobre. E non era quella l’unica differenza: per esempio, non c’erano i cellulari né Internet (“E come facevi a copiare durante i compiti in classe?” la solita vocina chiede; non ti preoccupare, c’erano mezzi molto efficienti e più difficili da scoprire, tipo scrivere in miniatura tutte le regole grammaticali greche in parti nascoste del vocabolario, e il Liddell-Scott aveva una magnifica appendice sui nomi geografici che sembrava fatta proprio apposta). Poi la televisione: trasmetteva a colori regolarmente da un anno o poco più e c’erano solo pochi canali, i due della RAI, la Svizzera, Capodistria, Telemontecarlo, qualche tivù privata agli albori. E non c’erano i videogiochi (“Oddio, e come passavate il tempo?”, passava, passava, te lo assicuro... e meglio di adesso: libri, amici, passeggiate, partite a pallone, a tennis, le ragazze...)

Comunque, è il mio primo giorno alle superiori, il 20 settembre 1978: prendo il treno e raggiungo Bergamo, a piedi risalgo dalla stazione verso l’istituto, un po’ intimorito dall’essere per la prima volta solo in città, ma anche imbaldanzito per esserlo. Arrivo all’ingresso, dove già ci sono decine e decine di studenti. Indosso un paio di jeans e una camicia bianca, sopra ho un gilè verde scuro lavorato a maglia (non fare quella faccia: stavano quasi finendo, ma erano pur sempre gli Anni ’70). Ho una borsa anch’essa verde scuro di velluto a costine. Una borsa, sì: la moda degli zaini che uniforma ormai tutti gli studenti allora non c’era e ognuno aveva qualche cosa di originale: chi la borsa, chi la tracolla militare, i ragazzi di II e III liceo classico, già maggiorenni o quasi, osavano addirittura delle ventiquattro ore. Molti avevano la borsa che regalavano i negozi di articoli sportivi: praticamente un cubo di tela plastificata con le maniglie. Goggi Sport, essendo a Bergamo, andava per la maggiore. Quel primo giorno però non c’erano ancora libri a gonfiarla: solo qualche quaderno e un diario. Avviso ai naviganti del nuovo millennio: la Smemoranda non esisteva, c’era un normale diario, oppure qualcosa con i fumetti. Non ricordo bene come fosse, è andato perso nel corso degli anni; so che la scuola ci fornì di un piccolo libretto con tanto spazio vuoto e qualche pensiero: comunque, pochissimi lo usavano, preferendo diversificarsi e non appartenere alla massa – tutto il contrario di adesso, lo so.

Dunque, entrai nell’istituto, chiesi al bidello – un omone quasi obeso e dall’aspetto buono come il pane – dove potessi trovare la quarta ginnasio e lui mi indirizzò al secondo piano. Salii le scale con la sensazione timorosa e curiosa che prova Alice nel Paese delle Meraviglie. In cima alle scale, sulla destra, si apriva un’aula: sul cartellino c’era scritto “Classe IV Ginnasio”. La mia. Avrei scoperto dopo l’intelligenza della disposizione: le aule erano disposte in ordine crescente, solo i bagni intervallavano la I e la II liceo classico. Nello stesso atrio c’erano anche un paio di classi dello scientifico. La porta, una spessa lastra di vetro o simile materiale satinato, era aperta: entrai e potei fare conoscenza con i miei primi compagni di classe. Mi sedetti in silenzio in un banco vuoto; dall’ampia vetrata si vedevano i tetti della città, qualche campanile svettava. Rimasi a guardare fuori finché non arrivò un ragazzo a sedersi nel posto vuoto accanto al mio. “Francesco” si presentò. “Daniele”, risposi. “Di dove sei, da dove vieni” e suonò subito la campanella. Arrivò la professoressa di Lettere, una signora ormai sul limite della pensione – era il suo ultimo anno, infatti – precisa identica a una zia di mia madre. Si sedette, ci salutò, disse qualcosa a proposito del nuovo corso che avrebbero preso le nostre vite e cominciò un lungo appello. Fu così che venni a sapere i nomi dei miei compagni: molti di loro avrebbero condiviso cinque anni della mia vita, altri si sarebbero persi per strada già nei primi giorni e nei miei primi mesi, anche Francesco, che fu costretto a trasferirsi a Torino per impegni di lavoro del padre. E Luca, che era da solo nel banco dietro di noi, scalò avanti. Non ci saremmo più separati fino alla maturità, condividendo compiti, appunti, penne, discutendo dei nostri affari, delle nostre ragazze, aiutandoci durante i compiti in classe, che a Bergamo si chiamavano, chissà perché, “esperimenti”.

Questo dunque fu il primo giorno al ginnasio, senza conoscere nessuno, in una città che è sì la mia, ma che non conoscevo allora così bene. Quando, a mezzogiorno e mezzo, salii sul treno che mi avrebbe condotto a casa, avevo gli orari delle lezioni dell’indomani e una litania che già mi ronzava in testa: rosa, rosae, rosae, rosam, rosa, rosa... rosae, rosarum, rosis, rosas, rosae, rosis...


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FOTOGRAFIA © L’ECO DI BERGAMO



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