sabato 19 ottobre 2019

Donna in bottiglia


Chi l’avrebbe mai detto? Le certezze adesso mi fanno paura... Saperti diversa dall’immaginazione, dalla dolce illusione nella quale ho vissuto come in una bolla, nella quale mi sono crogiolato comodo come un gatto disteso al sole, saperti irrimediabilmente perduta potrebbe distruggere i miei fragili sogni: si spezzerebbero in mille schegge al pari di uno specchio e sarebbe impossibile riaggiustarli. E sono io, proprio io, che voglio evitare l’incontro, io che ti ho tanto cercata, che tante volte per la strada mi sono fermato a indagare se fosse per caso te quella ragazza che mi aveva colpito per l’andatura, per l’acconciatura, per un gesto tuo disegnato nell’ombra. Sono io, proprio io, che non voglio riallacciare rapporti per non pagare il prezzo del disinganno.

Così resti sospesa nel limbo dei miei pensieri, una donna in bottiglia sullo scaffale: quello che ho di te sono parole a mala pena percettibili, come la voce del mare udita nel dormiveglia o un suono esterno mascherato da sogno poco prima del risveglio. Ti perdo e ti ritrovo ad ogni istante e ti ricreo com’eri e come non sei, ti contamino con altre donne, con altre idee, ti mischio con i desideri dell’inconscio, con le sue proiezioni. E finisce che metti in mostra il lato di te che mi è rimasto dentro, quello della memoria, quello dell’intuito: appari con una verosimile figura che ti illustra ma che è sicuramente falsa, per quanto io mi convinca del contrario. E questa iperbole di te continua a elaborarsi, a modificarsi da sé, si eleva a potenza su una base veritiera ma senza più controllare l’esattezza dei calcoli, e ad ogni errore da te si allontana, come chi, intrapresa una strada piena di bivi, a una biforcazione scelga la via sbagliata e prosegua diritto, convinto di essere sul giusto percorso: chiaro che, dopo il primo errore, tutti i suoi dati risultano sballati e le scelte di conseguenza fallaci.

Eppure credevo di agire con la ragione e non con il cuore. Pensavo di essere in grado razionalmente di venire a capo di tutto e non era che una narcisistica contemplazione della dea. Volerti ridurre a pura formula matematica mi sembrava un’ottima intuizione e non era che un’indecorosa viltà, dirò di più: un’anima di vile metallo rivestita di una menzognera doratura. Il mio cercare non era che ipocrisia. Insomma, il sogno che si è andato intarsiando con la realtà si è ridotto a pura farneticazione, è divenuto una tentacolare piovra che divora i rari sprazzi di lucidità e presenta come inossidabili convinzioni le illusioni meno sensate, fa credere vere le immagini sfuocate impedendo al contempo il contatto con la realtà. Giocoforza ci si ritrova a commentare un accaduto che non è mai accaduto, senza riconoscere l’indubitabile cesura tra la realtà e il sogno.

Per questo motivo, ora che si prospetta un punto fermo, una boa attorno alla quale girare, io lascio da parte le utopie perché la mia illusione non cada come cristallo, perché il mio amore non vada in mille pezzi impossibili da incollare. Tiro sulla testa il lenzuolo liso e sbiadito del ricordo e mi rintano perché la memoria, si sa, ha grandi spazi vuoti dove talora irrompe all’improvviso il sogno a galoppare senza briglie.

2011


DISEGNO DI DINO BUZZATI

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