sabato 9 giugno 2012

Sono nato in un laboratorio di maglieria

 

Sono nato in un laboratorio di maglieria… No, in realtà sono venuto alla luce di questo mondo in un ospedale di Bergamo, ma è come se fossi nato in quel laboratorio di maglieria dove i miei nonni e mia mamma sgobbavano dalla mattina alla sera – se dico che erano gli anni del boom economico scoprirete la mia età, ma io non sono vanitoso e lo dico: i ruggenti Sessanta finivano e si avviavano sulla china della crisi del petrolio e degli anni di piombo. E io ero lì, in quel laboratorio, nel mio recinto – ora li chiamano box, forse i pediatri pensano addirittura che sono dei lager in miniatura – io invece mi divertivo, con i miei giochi e le coccole della dozzina di operaie che si portavano il cibo da casa e passavano la pausa pranzo nel cucinino, si scaldavano anche qualcosa, sebbene io ricordi in modo vivido gli incarti oleati con la coppa e il salame.

Giocavo con le costruzioni di legno che tutti i bambini di un anno ancora adesso usano, poi con le macchinine, poi sarò anche uscito da quel recinto, una volta imparato a camminare. Comunque, in breve ho appreso i nomi di quelle macchine e le funzioni – e ogni operaia aveva il suo compito come è sempre stato nel mondo industrializzato, nessuna interinale, nessun co.co.co. Contratti seri. E contabilità sempre in ordine: a quella pensava mio papà, che di giorno lavorava in una multinazionale a Milano e la sera, sorbitosi il viaggio in treno, cenava e si metteva a studiare per diventare ragioniere e intanto batteva a macchina le fatture e riempiva i registri con la sua calligrafia ordinata.

Dicevo delle macchine. Cosa serviva? Dunque: la 8 e la 12, che sfornavano i teli per le maglie: le operaie spostavano il telaio da destra a sinistra e viceversa e a ogni passata il telo si allungava impercettibilmente, ma in breve arrivava alla misura voluta – non è così semplice: bisognava anche controllare gli aghi, spesso si rompevano e andavano sostituiti; c’era da oliare gli ingranaggi, c’erano dei pesi da attaccare ai teli; c’erano i coni di lana o cotone da tenere d’occhio. Poi arrivarono dei mastodonti grigi che lavoravano da soli: le Stoll, con un sistema di lettura a schede perforate che consentiva anche disegni jacquard. E naturalmente, come avrete già capito, il numero di operaie diminuì: una ragazza che si sposava o andava in maternità decideva di non lavorare più e dedicarsi alla famiglia e non veniva sostituita. Lo so, è triste, ma è la legge del mercato. Come è triste che i soldi per un’altra macchina da maglieria, la Coppo, tutta elettronica e smalto panna, andarono praticamente perduti perché nel frattempo era intervenuta una crisi di settore e quell’investimento risultò ormai superato. Mi piangeva il cuore quando la portarono via – avrò avuto già vent’anni e l’attività era ormai alla fine.

Ma proseguiamo nella visita: i teli venivano adagiati su lunghi tavoli dove la magliaia o “maestra” li segnava con il gesso bianco e li tagliava con le lunghe forbici. Il compito della magliaia era quello di mia mamma, che aveva già lavorato in gioventù, a 14 anni, mica come adesso! in un altro laboratorio. I teli tagliati passavano alle macchine per cucire, dove diventavano effettivamente maglie e dove venivano aggiunta la maglia rasata delle maniche e del bordo inferiore e rifinite, se c’erano, le asole o gli occhielli. Un’altra macchina, circolare, serviva per attaccare i colli; e qui c’era da sbizzarrirsi: a V, a lupetto, a lupo di mare, alla coreana, a girocollo, a barchetta, alla Serafino – sì, come il pastore di Celentano. Adesso il prodotto era finito: ci si attaccavano i bottoni se era un gilè o una Serafino e il capo veniva stirato da un’altra macchina, a vapore. Ah, se la avessi adesso invece del ferro! Come mi piacevano quegli sbuffi bianchi.. Qui venivano anche controllati eventuali difetti, se c’erano delle macchie venivano tolte con uno smacchiatore del quale ricordo ancora il nome, il Pludtach. Il prodotto finito veniva imbustato in un sacchetto trasparente con il marchio del maglificio: se l’ordine era di un grossista finiva in uno scatolone o veniva legato in un pacco: quante volte ho accompagnato mio nonno a Milano, a Bergamo, a Monza o a Lecco per consegnarli! Andavamo con la sua Giulia e qualche volta persino in treno. Se invece l’ordine era di un privato, che era venuto nel nostro punto di vendita – un piccolo locale dove c’era anche lo studio in cui mio papà premeva i tasti di una calcolatrice e ne usciva curiosamente un lungo foglio bianco, un serpente di carta ai miei occhi di bambino – allora lo si portava lì in attesa che il cliente lo venisse a ritirare.

Cosa si può dire di allora? Che erano altri tempi, che il lavoro si trovava con estrema facilità, che un lavoro non era mai troppo umile, che ci si accontentava di poco. Che ricordo con molto piacere i rapporti umani che si venivano a creare: ogni anno le operaie venivano portate in gita in qualche località turistica, erano tutte al mio battesimo, invitavano al matrimonio i miei nonni, ancora anni dopo la chiusura del laboratorio ci venivano a trovare… Ce n’è una che incontro talvolta al supermercato e ancora mi saluta e mi chiede come vadano le cose, come stiano tutti… e sono almeno 40 anni che non lavora più.

E poi, poi che cosa è successo? Che i miei nonni sono andati in pensione come artigiani prendendo tra l’altro una miseria – mia nonna si è lamentata di questo fino all’ultimo giorno dei suoi 94 anni – e hanno ceduto l’attività per qualche anno a mia madre. Ma i tempi erano cambiati, le difficoltà imprenditoriali erano sempre più alte, cominciava la concorrenza cinese a prezzi più contenuti. Insomma, non ci stavano dentro più, e nel 1986, dopo aver patito per un paio d’anni l’umiliazione dei lavori su commissione per altre aziende, il glorioso maglificio nato nel 1950 e presente più volte al Comis, la fiera milanese di settore, chiuse i battenti. Ma è sempre nella mia memoria e anche nel mio cuore, visto che sto scrivendo dove un tempo c’era il bobinatoio, l’aggeggio che prendeva le matasse di lana e le trasformava in coni o rocche da utilizzare sulle macchine: infatti, con un’operazione a metà tra la nostalgia e il vintage, quasi vent’anni fa ho trasformato il laboratorio nel mio studio: una specie di loft post-industriale dove mi sento davvero a casa…

 

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2011

scritto per TIMU – Le vie del lavoro

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