sabato 6 dicembre 2014

Lunedì

 

Non so che dire. Questa attesa è frustrante. Il telefono non ha ancora squillato una volta quest’oggi. Ho addirittura temuto che si sia rotto, poi ho controllato: funziona. Non trovo pace: comincio a fare qualcosa, poi smetto, cammino su e giù e non concludo.

Solo sull’amaca, una mezz’oretta dopo il pranzo e il telegiornale, sono riuscito a riordinare i miei pensieri, a valutare la situazione senza comunque venirne a capo. Però mi sentivo bene, la luce del giorno disegnava una tendina arancio sugli occhi chiusi, quasi mi appisolavo...

“Lunedì” ha detto lei, un frammento di discorso cui forse ho assegnato un’eccessiva importanza. “Lunedì” ha detto lei e mentre se ne andava ha aggiunto “Ti faccio sapere qualcosa”, quattro parole che mi hanno reso euforico per tutta la settimana, come una scarica di adrenalina, quella dei centometristi alla partenza della finale olimpica o degli astronauti che posero il piede sulla luna.

Lunedì, le sedici e tre minuti. Il telefono non ha suonato ancora una volta quest’oggi. Neppure un amico che avesse bisogno di qualcosa o i coetanei per una rimpatriata o venditori d’olio, di vino o di enciclopedie. Neppure uno che ha sbagliato numero e chiede di Marta o del capofficina.

Solo il campanello, stamattina: era il postino che mi consegnava un pacco, il cappellino che ho vinto al concorso della birra Bud, color kaki, con visiera carminio e le scritte Bud in bianco su rosso e King of Beers in blu, e una formica con un bicchiere in mano.

Ma lei, lei non chiama. Adesso sarà certamente al lavoro. Dovrà restarci ancora un paio d’ore. Poi, forse chiamerà. “Lunedì”. È lunedì fino alla mezzanotte, anche se penso che non mi telefonerebbe così tardi. Magari verso le otto, o le nove. Magari no.

“Lunedì”. Però non aveva associato lunedì a “Ti faccio sapere qualcosa”, quando se n’è andata. “Lunedì” l’aveva detto prima, parlando dell’argomento che mi sta a cuore. Potrebbe anche darsi che telefonerà domani o mercoledì, o un altro giorno...

Le sedici e undici. Il tempo oggi fatica a passare. Ho letto un po’ tre libri di­versi, un brano da ciascuno: “L’ultima amante di Hachiko” di Banana Yoshimoto, “Op-Center Parallelo Russia” di Tom Clancy, tre capitoli della “Sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj. Come ho fatto a cominciare tre libri in contemporanea? E sulla scrivania c’è “Lo strangolatore” di Manuel Vázquez Montalbán, che ho comprato ieri. Spero non mi venga la tentazione di iniziare a leggere anche quello senza aver finito gli altri.

Avrei anche bisogno di riordinare la biblioteca, di collocare nelle scatole libri che non mi interessano più così da fare spazio, ma oggi fa troppo caldo: trentatré gradi e un’umidità del sessanta per cento. Lascerò i libri accatastati uno sull’altro ancora per un po’ e so già che finirò col non trovare poi il tempo di farlo.

“Lunedì”. C’era un tempo che odiavo il lunedì, quella sua ineluttabile imposizione di ricominciare, quell’abulia che ne permeava gran parte della giornata.

Oggi lo benedirei questo lunedì se mi portasse l’esito sperato, santificherei in qual­che modo tutti i lunedì e me ne infischierei degli scioperi dei treni o dei mezzi pubblici, della neve, della pioggia, del sole a picco, della nebbia. Se lei telefonasse, se lei dicesse sì questo lunedì.

Più tardi

Ho appurato che il telefono funziona: ho fatto il 161 e una voce di donna sul sottofondo della “Danza delle Ore” di Ponchielli mi ha comunicato che erano le diciassette e cinquantatré e trentacinque secondi. Poi ho chiamato il numero di casa dal cellulare ed ha squillato.

Nulla. Non mi ha chiamato e sono le sette e mezza di lunedì. “Lunedì”. Così ho letto qualche pagina della Yoshimoto, dove la protagonista Mao incontra un italiano, che poi è il traduttore del libro, ma che nel romanzo è un critico d’arte-dongiovanni-violentatore, e poi ho ascoltato un po’ di radio. Canzoni datate: “Vecchio frac” di Modugno, “Cirano” di Guccini, “Margherita” di Cocciante, “Generale” di De Gregori, qualche pubblicità e un breve notiziario.

Ma il telefono non ha suonato. Il telefono non suona. L’euforia dei giorni scorsi è da un bel po’ ch’è passata, ora semmai propendo per la delusione, tenendo comunque sempre viva la speranza, come la fiamma sacra delle Vestali.

(1999)

 

Hopper

EDWARD HOPPER, “ROOM IN NEW YORK”, PART.

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