Ed ecco che torni a fare la svampita per gioco: metti un dito in bocca, l’indice dall’unghia laccata di cremisi tra le labbra carnose e poi come se dirigessi tu l'orchestra segui il ritmo di Beethoven dallo stereo con il braccio teso e disegni nell’aria arabeschi con un’invisibile bacchetta.
Sei come una bambina se il gioco subito ti stanca e dici «Chissà adesso a New York che ore sono e che tempo fa... Quanto vorrei vivere a New York tra i grattacieli, lavorare in un ufficio ai piani alti che guardi giù e vedi tutta la baia, l’Hudson, la città...»
Per accendere il televisore e sognare New York in qualche telefilm o in un telegiornale, ti pieghi in avanti e i capelli ti scendono come un sipario a celare il seno nudo nella luce blu dello schermo. Ti vedo finalmente rilassata, un poco assorta. Mi chiami e mi racconti quel che accade nel film, mi dici «Guarda che bei posti, che aria si deve respirare lì». Non è New York ma un’isola caraibica di palme e mare turchino.
Dietro i vetri la sera si fa notte, la luna sale sempre più e io continuo a lavorare alla fioca luce della lampada sulla scrivania, tu continui a guardare il film, seduta sul letto. Poi d’improvviso fai ancora il gioco: sei una gatta che fa le fusa, gonfi le guance, ti strusci, fingi di lottare con un molosso. E lanci un’occhiata verso me per vedere se hai fatto centro, se mi hai colpito.
1993