sabato 11 aprile 2015

PAO

 

Nel luglio del 1988 ero ancora un “nipote”. Dopo il mese di CAR alla caserma Edolo, il mio trasferimento alla Leone Bosin e il campo estivo a Ponte di Legno, in attesa di una posizione ufficialmente certa in seno alle Forze Armate cui “prestavo” un anno della mia vita, appartenevo praticamente alla più bassa manovalanza. Era un po’ la situazione delle caste indiane: ero sul fondo, nella struttura piramidale dell’esercito di leva. Questo significa che venivo considerato disponibile per ogni turno di guardia, per le varie corvée della caserma - più volte avevo lavato piatti in cucina o ramazzato i viali della Bosin - o per qualsiasi ghiribizzo venisse in mente a un qualche ufficiale. Per dire, in quella prima settimana di luglio avevo montato di guardia, avevo servito di corvée cucina, ero stato incaricato della pulizia dei bagni della mia compagnia ed ero stato inviato come capomacchina sull’Alfa 33 blu del generale di brigata al Tonale, avevo dormito lassù ed ero tornato in mattinata.

Quel tardo pomeriggio stavo facendomi la doccia per andare finalmente in libera uscita dopo giorni. Mi pregustavo già le luci di Merano, il ristorante sotto i portici, la gelateria sul lungopassirio. Invece, mentre ero lì tutto insaponato, mi chiamarono: «Ti vuole il sottotenente». Finii di lavarmi, mi avvolsi nell’accappatoio, andai in camerata a indossare di nuovo la mimetica, presagendo che qualche nuovo servizio mi sarebbe stato appioppato tra capo e collo, e andai nell’ufficio del sottotenente.

Non mi ero sbagliato. «Si è rotto l’allarme dell’armeria. Devo aggiungerti al PAO». Senza giri di parole, franco, sincero, corretto. Apprezzai. Del resto ammiravo molto quel sottotenente, figlio di un generale, che però non faceva pesare minimamente questa sua imponente parentela. Approfittai di quella sua sincerità per una rimostranza - sarebbe stata fuori luogo altrimenti, gli ordini non si discutono. «Posso parlare chiaro?» gli chiesi. «Certo». «Guardi, io non ho problemi, ma mi piacerebbe sapere perché proprio io, tra i tanti soldati di questa caserma. Ieri al Tonale, prima di servizio ai bagni, prima in cucina, prima ancora di guardia, adesso di PAO». Il sottotenente non si scompose, fece soltanto una smorfia che significava “Mi dispiace”. Alzai le mani, quasi in segno di resa, tornai in camerata a prendere l’elmetto e mi recai all’armeria che dovevo difendere, dove mi misero in mano un vecchissimo fucile Garand che non sarebbe servito a niente in caso fosse successo davvero qualcosa.

Passai due ore seduto su una sedia davanti alla cancellata chiusa dell’armeria, con il fucile nella sinistra e pensieri che mi si accavallavano. Affrontavo un misto di rabbia e di impotenza, consideravo l’ineluttabilità di quella situazione, ero consapevole di rappresentare l’ultima ruota del carro, la parte più bassa della catena alimentare. Come Dio volle, finì. Venne il sottotenente a dirmi «Puoi andare» e mi allungò la mano perché la stringessi. Era il ringraziamento silenzioso di un uomo tutto d’un pezzo, e mi lusingò. Lo salutai e mi avviai all’uscita della palazzina delle Trasmissioni. Nel corridoio mi sentii chiamare. Era S., un varesino di lago con il quale avevo fatto il CAR. «Vieni, che beviamo del Bonarda. L’ho portato dalla licenza». Erano le dieci ormai, troppo tardi per uscire, troppo tardi per qualsiasi cosa. Entrai nella sua camerata, presi la tazza rossa smaltata che mi offriva e bevendo lentamente il vino rosso e vivace gli raccontai di quella sera, di quella settimana infernale. Parlando, come sentivo che il vino scioglieva i nodi dentro me, ugualmente capivo che andavo allentando la tensione, che lo sfogo cancellava la rabbia, che la compagnia degli amici è come una medicina salutare.

Il mattino dopo il sottotenente mi chiamò ancora. Nessun servizio, stavolta. Mi avevano trasferito alla Cesare Battisti per lavorare finalmente inquadrato in un ufficio, con una posizione ben definita. Stavolta mi strinse la mano per salutarmi e sulle sue labbra apparve anche l’ombra di un sorriso.

    PAO

Nessun commento: