sabato 12 settembre 2015

Dieci anni dopo

 

Siamo ancora qui, seduti a questo tavolino di caffè mentre fuori febbraio nevica luce e una nuova primavera si annuncia dietro i vetri opachi. C’è odore di caffè e di caldo, il clangore delle tazzine ogni tanto si mescola alle voci dei pochi avventori e alla musica soffusa che esce da altoparlanti invisibili. Il tempo sembra sospeso, potrebbe essere quello di allora, potrebbe essere allora nonostante qualche nuova ruga di espressione intorno ai tuoi occhi, nonostante qualche brillio grigio tra i miei capelli.

Proprio di quello stiamo parlando adesso, di come il tempo ci abbia cambiati, non solo esteriormente - ora porti i capelli più corti, io li ho rasati cortissimi, “Un marine” mi hai detto appena arrivata, ancor prima che mi alzassi per baciarti sulle guance, per aiutarti a toglierti il cappotto, per spostare la sedia e farti accomodare. Siamo cambiati dentro. Siamo altre persone rispetto a quelle che eravamo dieci anni fa. I caratteri si smussano quando perdono l’esuberanza della prima gioventù, a furia di cozzare contro i muri alla fine si accettano anche questi arrotondamenti. E l’esperienza, vuoi mettere, l’esperienza non può essere soltanto un fardello, un inutile peso: a qualcosa dovrà pure servire.

Era una sera di pioggia allora. L’ultima volta. Era un altro caffè, in un’altra città. Aveva tavolini color vermiglio e sedie bianche. Sotto il bancone navigava un acquario bulinato in vetro, fuori scrosciava una notte buia di fine estate, la malinconia aleggiava nell’aria ancor prima del nostro addio. Ero timido allora, lo sono ancora ma l’età ha saputo in qualche modo sconfiggere quel difetto, ho dovuto giocoforza aprirmi, espandermi, incattivirmi per poter resistere in questo mondo, per non essere sopraffatto e andare avanti. Ci ho messo coraggio, ci ho messo volontà. Ne avessi avuta allora, probabilmente le cose tra noi sarebbero andate in modo diverso. È giusto che tu lo sappia, è doveroso che faccia ammenda.

Nel parlare ho posato la mano sul tavolo. La sfiori, poi la prendi nella tua. Io sono di un’altra. Tu sei di un altro. Lo sai bene. Lo sappiamo bene. Eppure quel gesto, le nostre mani che si allacciano dopo tanti anni, non vogliono ricucire: sono una condivisione, la consapevolezza che non rimane nulla di non detto, che ci siamo finalmente capiti.

È tardi ormai, è l’ora dorata del crepuscolo: dalla vetrina la luce arriva a disegnare riflessi gialli sulla teiera, sulla tovaglia, sulle tazzine. Guardi l’orologino al tuo polso. Devi andare. Mi alzo, ti aiuto a infilare il cappotto. Mi ringrazi con un bacio sulla guancia, prolungato un poco più del dovuto, direi. Il tuo profumo sa ancora inebriarmi. Te ne vai nella via inondata di luce, infili la stazione della metropolitana verso casa. Torno a sedermi, ordino un altro caffè. Sento ancora il contatto della tua mano...

 

Iain Faulkner

IAIN FAULKNER, “IN FROM THE STORM”

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