Ammetto di essere stato fortunato nel mio anno di servizio militare: i turni di guardia che mi capitarono furono poco più di una dozzina - la mia condizione di caporale responsabile della Delegazione presidiaria mi mise per molti mesi al riparo dei servizi di caserma. Ma non per questo esente.
Ma cominciamo dal principio, cominciamo dal CAR alla caserma Rossi: lì mi toccò, come agli altri, un turno di piantone non armato all’ingresso della palazzina della mia compagnia, la 50°. Ero talmente annoiato che in quelle quattro ore imparai a memoria la Preghiera dell’Alpino stampigliata sul muro. Un’altra volta fui di piantone alle camerate del plotone, il secondo. Lì il tempo passò più veloce perché non ero solo: rimanevano confinati quanti avevano marcato visita e attendevano di essere trasferiti all’ospedale militare. Rimasi a conversare con un gruista di Vipiteno che aveva un’ernia e con il nipote di un famoso compositore trentino che non so nemmeno cosa avesse.
Passato quel mese di maggio, fui assegnato al Reparto Comando, presso la Caserma Bosin, e lì me ne toccarono parecchie di guardie, essendo un “nipote”: almeno tre prima di partire per il campo estivo e un’altra dopo. Alla Bosin si montava di guardia in due: uno sull’altana, l’altro giù, a camminare lungo la mura di cinta. Dopo un’ora ci si scambiava di posto, dopo un’altra ora si andava a riposare quattro ore sulle brandine nel corpo di guardia per poi tornare fuori a dare il cambio. A tracolla avevamo il fucile, un Garand, e nelle tasche della mimetica un paio di caricatori. Nell’altana, una cabina rotonda di cemento armato sopraelevata, avevamo a disposizione una radio per chiamare il posto di guardia e un faro girevole, posto sul tetto.
Al campo estivo, in quel della val Sozzine, alla periferia di Ponte di Legno, la guardia era soprattutto all’armeria, sita in uno shelter, una specie di container trasportabile con i camion. Mi capitò in una notte di metà giugno, talmente fredda che dovetti indossare maglione pesante e cappello norvegese invece del consueto berretto da stupidi. Una domenica pomeriggio fui più fortunato: mi misero di guardia all’ingresso del campo, in un bunker costituito con i sacchetti riempiti della sabbia raccolta sul greto del torrente che scorreva lì vicino. Vedevo la strada: passavano motorini, automobili, ragazze, gente in bicicletta, e quello era il mio svago mentre maresciallo, sergente, colonnello e maggiore giocavano a carte a un tavolino non molto distante.
Dieci giorni dopo venivo finalmente assegnato alla Delegazione presidiaria e per mesi non fui interessato alle guardie. Fu verso dicembre che mi comunicarono che avrei dovuto sorbirmene anch’io qualcuna - poche vista la mia anzianità di scaglione e il fatto che comunque non avrei potuto abbandonare al suo destino il mio ufficio quando il mio collega era in licenza. Alla caserma Battisti, dove ero aggregato, si montava di guardia in modo diverso: un soldato presidiava il passo carraio mentre il resto della squadra ovvero un autista, un caporale e un soldato, perlustrava a bordo di una jeep il vasto territorio della caserma apponendo una firma ogni ora ad un blocco posto sugli obiettivi da controllare. I turni di guardia duravano due ore ed erano intervallati da quattro ore di sonno. Me ne capitarono tre o quattro prima del congedo. Una domanda facile facile per concludere: visto che il caporale doveva firmare il blocco due volte, quante erano le fermate necessarie per ogni turno? Una, naturalmente: si scendeva nella seconda ora abbandonando il calduccio della jeep e si apponevano due firme con orari diversi...
Quello che non immaginavo allora era che oggi avrei guardato non dico con rimpianto, ma con una dolce nostalgia a quei tempi ormai lontani.
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