Eravamo giovani: avevamo diciassette anni, ormoni in movimento e un bagaglio di musiche e poesie nel cuore. Eravamo due classi in gita: la prima e la seconda liceo classico, insieme non riuscivamo neppure a riempire il pullman. La nostra destinazione in quel giorno di novembre - non si trattava della classica gita scolastica di fine anno, ma l’occasione per visitare una mostra - era Venezia.
Il viaggio di andata risentì dell’ora antelucana, molti di noi ne approfittarono per dormire, per dare energie a quell’esuberanza che durante il giorno ci spingeva alle cose più assurde, a morire d’amore o a correre a perdifiato. Percorsa la fettuccia di asfalto e binari che collega la città alla terraferma, arrivammo infine a Piazzale Roma: scendemmo e fummo subito al Ponte degli Scalzi, Venezia ci accoglieva con le sue cupole e i suoi campanili, con i suoi palazzi e i vaporetti riflessi nel grigio uniforme del cielo e dei canali.
Andammo sbarazzini come una classe in gita sa essere, ridendo e scherzando, mentre il professore di Storia dell’Arte si orizzontava tra le calli. Non erano una novità per me lo splendore e la bellezza, l’unicità di Venezia: la conoscevo bene perché ogni anno ci fermavamo una mezza giornata tornando dalla vacanza al mare sull’Alto Adriatico. La novità era in quel suo grigiore, in quella malinconia che permeava ogni cosa e che era a me estranea, così lontana dal sole di luglio e dalle frotte di turisti. La sentivo più mia adesso, ora che avevo un amore lontano a pungermi dentro, ora che vi ero stato buttato a capofitto come un poeta crepuscolare. Andavo e ad ogni passo cresceva quella malinconia, mi impregnava come un acquerello che imbeve la carta. Per di più, il mio compagno di banco quell’anno si era trasferito in un’altra scuola; avevamo legato molto e la cosa mi dispiaceva moltissimo. All’amore infelice avevo sommato anche l’amicizia perduta - sarebbero poi tornati entrambi, l’amata e l’amico, pochi mesi dopo, ma quel giorno non lo potevo sapere e mi crogiolavo in quel mercurio fuso che era l’atmosfera veneziana di novembre.
Visitammo infine la mostra, con i capolavori dei Manieristi, andammo anche a vedere in una chiesa opere del Tintoretto e di El Greco. La mia solitudine di esistenzialista sofferente si acuì al pranzo, quando finimmo in una triste pizzeria e, come un apostolo perduto, non trovai posto al tavolo con la mia classe, ma ad un tavolino di servizio con un taciturno ragazzo di seconda. Ritrovai i miei compagni quando uscimmo e finimmo al ponte di Rialto. Era uscito anche uno sprazzo di sole adesso, che tingeva d’oro le scie dei vaporetti. Roberta, che si era portata la chitarra, suonava seduta alla spalletta: “Io, vagabondo che son io, vagabondo che non sono altro, soldi in tasca non ne ho ma lassù mi è rimasto Dio...” e ancora “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi le tue calzette rosse e l'innocenza sulle gote tue...”, cantavamo tutti in coro e turisti sparuti ci guardavano sorridendo.
Era tempo di tornare. Il professore ci radunò e fece rotta verso il pullman. Salutammo Venezia con un po’ di nostalgia e ci imbarcammo. La fettuccia di asfalto e binari adesso tagliava in due un tramonto arancione: sembrava di galleggiare tra mare e cielo. Restammo tutti in silenzio davanti a quello spettacolo, poi qualcuno cominciò a cantare: “Che idea! Ma quale idea! Non vedi che lei non ci sta? Che idea? Ma quale idea? Attento, lei lunga la sa! Lei ti farà girare in tondo senza avere mai le cose che pretendi e - scusa - in cambio tu che dai...”
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