Il vecchio si chiama Piero, ma tutti lo conoscono come Luigi. Ha il suo pezzo di terra dietro la casa, un tratto in salita baciato dal sole e dall'aria del lago; dietro si distende il bosco dove ogni tanto va ancora a cacciare. È un ometto curvo, dotato però di una forza straordinaria e di una grinta che gli anni - quasi novanta - non hanno intaccato di un millimetro. Sotto i baffi indecisi tra il bianco e il rossiccio si apre una bocca che taglia il silenzio con i suoi giudizi precisi e affilati, con parole che non vengono sprecate, ma vanno diritte al centro del bersaglio.
Ora sta cavando i porri con la vanga, al sole tiepido di primavera. "Li prenda", mi dice mescolando italiano e dialetto, senza troppo insistere, "tanto li devo togliere comunque per le nuove coltivazioni, altrimenti li devo buttare via". Capisco che devo accettare, per non offenderlo, e lodo la grossezza ed il profumo di quei porri che ora sta pulendo con il falcetto: dà un taglio netto al culmine delle foglie, poi con un movimento circolare e aggraziato leva le barbe delle radici. Quando li ha mondati tutti, ne fa un grosso mazzo e li lega con un ramo di salice. Mentre me li porge, sorride.
Davanti a un bicchiere di vino rosso, e poi a un altro e a un altro ancora, fumando di tanto in tanto il suo mezzo toscano, mi ha raccontato dei suoi vecchi e nuovi dolori. Il tempo scorreva lento, sulla strada oltre l'orto passavano le automobili e le motorette della domenica pomeriggio. Lontano potevo vedere la breva sollevare minuscole onde sullo specchio grigio-azzurro del lago.
Luigi ha fatto la guerra di Russia, e prima ancora è stato nel fango dell'Albania, della Grecia e del Montenegro. Ha visto i muli sprofondare nella melma, le navi italiane bombardate tra Brindisi e Durazzo, le trincee scavate nel gesso in riva al Don, gli amici sfiniti fermarsi a morire nel ghiaccio. Nelle isbe della steppa ucraina ha conteso agli odiati tedeschi quel poco di calore nella notte e negli orti esultava per una vecchia buccia di patata o per un torsolo di cavolo. A Nikolajewka, dopo giorni di marcia nel gelo, è riuscito a passare di là del ponte della ferrovia e a ritrovare la libertà, la strada per l'Italia, a prezzo di sacrifici inenarrabili.
E con la pace ha trovato una moglie e poi i figli e un lavoro alla fornace. Gli anni sono trascorsi e ora la moglie è morta e sui figli non può più comandare, non capisce neppure come ragionino, non sa capacitarsi di tutte quelle liti per la casa e i terreni.
Però quando è qui, nel suo campo sulla collina dalla terra buona e scura, con i boschi dietro e lo scintillio del lago davanti, seduto tra il cielo e l'acqua come adesso, mentre fuma e guarda le piante crescere al sole di primavera, ritrova la felicità, quello che vagheggiava negli interminabili giorni nel gelo ucraino, tutto quello per cui ha resistito e continuato a marciare, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, verso il ritorno.
Guarda il rosmarino che ha piantato a ridosso del vecchio muro di pietra soltanto stamattina: "Farà alla svelta a coprire il muro: cresce in fretta il rosmarino..."
2009
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