sabato 30 marzo 2013

Tre giorni in Puglia

 

Il mare di Bari quel giorno era azzurro, percorso da piccole onde guizzanti come pesci. C’era odore di salmastro, il sapore delle cozze che avevamo mangiato la sera prima al ristorante “Tre trulli” di Ceglie Messapico, nelle Murge.

Al largo qualche barca con un pescatore intento a scrutare l’acqua, più in là il campanile della chiesa di San Nicola. Sul Lungomare di Crollalanza i pescatori toglievano i polipi dai secchi e li battevano a lungo sugli scogli per renderli morbidi, li vendevano e ne offrivano pezzettini da assaggiare crudi. Sono ottimi cotti nell’aceto: se l’aceto è rosso restano rosati, scuri. Sono pronti quando con una forchetta si sente il morbido nella zona della bocca.

Il sole cominciava a scottare: la mattina di maggio era limpida e serena dopo giorni di tempo incerto. Il giorno prima, invece, il mare era agitato: l’avevamo visto minaccioso e fragoroso buttarsi sulle rovine piene di immondizia a Egnazia; soffiava un forte vento e incombeva un temporale che rendeva cupo il cielo sopra la campagna e i ruderi in essa rimasti, ben tenuti, a differenza di quelli sul mare, appena al di là della strada. In mattinata avevamo visitato Locorotondo vagando fino a perderci nelle stradette bianche e pulite colorate dal rosso dei gerani. Lì ci sorprese il calore del Sud, l’ospitalità della gente che ci salutava per strada. A Locorotondo comprammo il vino locale, bianco e profumato. Per mezzogiorno fummo ad Alberobello, dove visitammo il Rione dei Trulli e acquistammo prodotti tipici e troccoli per fare la pasta in casa.

Ora finalmente splendeva il sole e Bari si ergeva davanti a noi, maestosa come una regina del Mediterraneo.

20 maggio 1993

 

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FOTOGRAFIA © MARTHA BAKERJIAN

sabato 23 marzo 2013

La ragazza di allora


Ti sdraiavi sulla sabbia con pose sbarazzine e lasciavi che il sole accarezzasse la tua pelle. Con abili parole guidavi il discorso: parlavi della musica e del tempo che vivevamo, dei patemi che creavano situazioni internazionali tese e ingarbugliate, del ruolo della donna nella società moderna. Poi con un sorriso dicevi «Entriamo in mare» e cominciavi a correre tenendomi per mano. E in mare ti tuffavi subito e restavi lì a schernirmi perché non trovavo il “coraggio” di sfidare l'acqua fredda. Così cominciavi a schizzarmi gelidi scrosci con le mani.
 
E i tuoi baci com'erano dolci, com'erano ingenui quella sera di luglio sul­l'ottovolante, com'erano caldi e appassionati quel pomeriggio che un acquazzone ci sorprese al pontile. La ragazza di allora non c'è più: quella ragazza forse un po' fragile è diventata una donna e che donna! Una donna in carriera che sale di grado e che sa cosa vuole, che lotta per emergere e frequenta gente nuova.
 
Ed io ancora sono qui e forse sono quello che è cambiato meno, forse per­ché aborro un poco i cambiamenti e faccio delle mie abitudini uno scudo che è anche un po’ prigione. E in questa mia sicura cella ho un fedele amico: il rimpianto di tutte le occasioni che ho perduto e rimango lì a sognarti e gioco con i se ad immaginarmi una realtà parallela che ad ogni se in altre si biforca tanto che alla fine perdo il conto e ritorno alla ragazza di allora che si sdraiava sulla sabbia con pose sbarazzine...
 

25 gennaio 1991

 

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MENQ TSAI, “BEACH GIRL”

sabato 16 marzo 2013

Due amici

 

In ufficio non c'era nessuno, il sole entrava caldo dalle finestre senza ten­dine della sala d'aspetto e disegnava le ombre sul pavimento di palladiana. "Però è bello il sabato pomeriggio" pensò Paolo chiudendo con il chiavistello la porta dietro di sé, "si può venire qui indisturbati e fare tutto quello che si vuole". Aspettando che Danilo passasse a prenderlo, Paolo iniziò a risolvere i giochi della Settimana Enigmistica che aveva comperato la mattina. Era il suo hobby: sapeva risolvere quasi tutti i giochi, anche quelli difficili, e suscitava ammirazione in tanta gente questa sua abilità, frutto di una buona intelligenza, certo, ma anche di anni di cultura classica e di un costante aggiornamento.

Intanto nella strada gli autobus si susseguivano sbuffanti e frotte di ragazzi raggiungevano il centro. Paolo notò una ragazza carina: aveva i capelli biondi e ondulati e un grazioso ansino all'insù, indossava dei jeans molto aderenti che le mettevano in risalto le forme. Dopo qualche minuto un autobus se la portò via verso i divertimenti del centro.

Proprio in quel momento suonò il campanello: era Danilo, il collega con cui Paolo doveva uscire. Danilo entrò nell'ufficio e prelevò qualche cosa che aveva dimenticato nel cassetto della sua scrivania. I due ragazzi uscirono e Paolo chiuse con attenzione la porta dell'ufficio, poi salì in macchina.

L'Alfetta 2000 di Danilo era sempre pulita e tenuta con cura, Paolo spesso elogiava questo comportamento dell'amico, lui che invece non dedicava molto tempo alla sua auto e che non si intendeva molto né dei motori né delle ultime novità. Danilo invece sapeva citare qualsiasi dato delle auto sul mercato: prezzo, cilindrata, consumi, se avessero la trazione anteriore o posteriore, numero dei cavalli-vapore e così via.

"Dove andiamo?" chiese Danilo. "Potremmo andare in collina: è così interessante in autunno" propose Paolo. Attraversato il centro, svoltarono per la collina: subito la strada cominciò a salire. Nella vallata potevano scorgere tutta la città come se fosse una piantina tridimensionale: c'erano i campanili, le chiese, gli ampi caseggiati gialli delle caserme, l'ippodromo, la seggiovia e soprattutto il fiume che rimandava riflessi argentei verso il cielo

"Parcheggia lì" disse Paolo. Era un bersò di vite del Canadà che ospitava altre automobili davanti a un albergo. "Di qui in pochi minuti arriviamo in cima" spiegò Paolo all'amico, che gli era parso un po' perplesso. In breve immensi campi di mele e vigneti apparvero ai bordi della strada. I due ragazzi colsero qualche mela verde e grappoli d'uva nera e lucente.

Lavarono la frutta a una fontana in cui scorreva un'acqua fresca e limpida e strada facendo la mangiarono lodandone la bontà e la genuinità. Nei vigneti più a monte un gruppo di contadini stava vendemmiando, molti turisti stranieri rientravano dalla passeggiata recando maglioni e borse in mano e ticchettando l'asfalto con il bastone da montagna.

"Guarda che spettacolo" disse Danilo e indicava con la mano il sole che tramontava dietro di loro incendiando i monti. Rimasero a lungo ad osservare la scena poi decisero di rituffarsi nel caos del centro prima di andare a cena. In un quarto d'ora furono di nuovo in città ma non trovavano un posto per parcheggiare. Finalmente Paolo indicò a Danilo uno spazio vuoto davanti ai telefoni pubblici. Erano stati fortunati perché avevano trovato un parcheggio in una zona molto vicina al centro.

I due amici passeggiarono un po' sul lungofiume discorrendo di gente che conoscevano e delle ragazze che passavano. "A me piacciono quelle due del negozio di abbigliamento, sai, le due bionde che sono quasi sempre in minigonna: hanno delle belle gambe, vero?" disse Danilo. Paolo annuì. "Però a me non inte­ressa molto che siano proprio belle" replicò dopo un attimo "insomma, vorrei che avessero altre doti: che fossero sincere, fedeli; casomai preferirei che fossero belle dentro, se poi sono belle anche fuori... tanto meglio". Danilo ribatté "Però se viene una bella bionda che ti dice che ti ama alla follia e ti si offre, tu non stai certo lì a guardare com'è fatta dentro..." Paolo ammiccò con quel suo fare un po’ sornione che aveva quando riusciva a sopraffare la sua innata timidezza.

Entrarono in una pasticceria e in attesa dell'ora di cena mangiarono una fetta di torta di mirtilli continuando a discorrere. Intanto era calata la sera e si erano accese le luci della fontana proprio davanti alla pasticceria. Alle sette e un quarto Paolo e Danilo uscirono e si diressero verso i portici. Già da qualche giorno avevano deciso che sarebbero andati a cenare da "Rainer", un ristorante che si trovava proprio alla metà dei portici. Entrarono nel ristorante e si sedettero a un tavolino di fronte al bancone del bar. Il locale aveva i muri rivestiti in legno molto chiaro e molti trofei appesi alle pareti; le tovaglie erano a quadretti bianchi e rossi.

Una cameriera portò una candela e il cestino del pane. I due ragazzi cominciarono a sbocconcellare il pane nero con i semi di comino e poi ordinarono del vino rosso. Portando il vino la ragazza chiese che cosa desiderassero per cena. Era sui vent'anni, molto attraente, coi capelli bruni raccolti a coda e un sor­riso disarmante. Paolo ordinò dei ravioli e del gulasch, Danilo, come sempre, gli spaghetti al ragù e la cotoletta. Paolo non riusciva a capire in Danilo quella mancanza di curiosità per qualche cosa di diverso, fossero i cibi o le usanze o altro ancora. Eppure tutte le novità automobilistiche lo incuriosivano - pensava Paolo - anzi, sapeva già tutto molti mesi prima che fossero immesse sul mercato.

Quando uscirono l'ultimo autobus aveva appena lasciato la fermata e scendeva verso la città bassa; le stelle ammantavano il cielo come brillanti stesi su un panno scuro, l'aria era diventata frizzante. "In questi momenti" disse Paolo "mi sembra di vivere nella Parigi degli Anni Venti, di essere parte di quel mondo di artisti e bohemiens: Hemingway, Picasso, Modigliani, Fitzgerald..."

1990

 

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MERANO, I PORTICI DI SERA – ELABORAZIONE GRAFICA © DANIELE RIVA

sabato 9 marzo 2013

Primo amore

 

Vestita d'azzurro lei veniva verso me, entrava nella mia vita quel giorno d'estate pieno di sole. Ancora adesso non so se fu un colpo di fulmine o un lento innamorarsi: ricordo quell'approccio un po' impacciato, ricordo quel caso che instaurò la conversazione, quel libro galeotto che unì due cuori. Ricordo poi con quanto coraggio mi sedetti accanto a lei, quanta forza insospettata trovai nella mia incosciente gioventù. Forse fu solo un'illusione, forse un gioco durato un po' di più.

Ma lei era l'amore - ora lo so - il gusto acerbo del primo amore, quello che rimane più a lungo dentro il cuore. E mi perdevo nei suoi occhi, occhi scuri, oc­chi grandi da guardare, occhi dove il mare si specchiava con la luna mentre cantavamo e la sera piano piano ci portava via davanti ad un falò. Lei era mia, la sentivo tra le braccia e sapevo che la perdevo già, in bocca si formava già il sapore amaro del primo addio.

Ma lei ha lasciato nel mio cuore il suo ricordo, una fiamma accesa che mi conforta oggi che lei chissà dov'è, chissà da quali braccia si lascia stringere. E certamente sa che una parte di lei è rimasta dentro me, così come una parte di me - io lo so - batte ancora nel suo cuore.

Gennaio 1990

 

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RAPHAEL SOYER, “GIRL IN BLUE, 1975”

sabato 2 marzo 2013

Il tempo

 

“L’unica cosa che abbiamo è il tempo” mi dici. Tempo di dipingere acquerelli che sbiadiranno un giorno, tempo di confezionare marmellate che affastelleremo sui ripiani della dispensa, vasetti colorati di rubino, d’ambra, di smeraldo. Tempo per essere noi stessi, per restare insieme, per raccontarci seduti sulle sedie di ferro di un giardino d’estate mentre i rampicanti avvolgono pergolati e fioriscono dove le api suggono polline. Tempo per amare...

D’accordo. L’unica cosa che abbiamo è il tempo. Ma è adesso. Adesso, capisci? Io non voglio aspettare domani o dopodomani, non voglio tenere conto di giorni e mesi, costruire architetture di minuti e telefonate, di incontri al ristorante, di passeggiate sotto i portici di città dove si spalancano pasticcerie e negozi dalle vetrine scintillanti. È adesso che io ti voglio amare, adesso che voglio stringerti e tenerti tra le braccia, adesso che mi voglio raggomitolare nel tuo calore. Come se potessi allungare la mano e toccarti, entrare in contatto con te, divenire parte del tuo universo. E cancellare questo senso di vuoto, riempire questa casella bianca nella mia vita.

Ma adesso tu parli e racconti, disegni con le mani le parole che dici, figuri mondi, costruisci castelli in aria. E fai sembrare così naturale questo tuo attendere, questo sospenderti agli eventi come una ragnatela tesa tra due rami. Ieri e domani, l’ho capito, sai? Ti bilanci tra due corni di tempo e questo è il tuo salvagente – non posso certo chiamare ipocrisia questo tuo comportamento, è un’autodifesa che pratichi. Una cosa soltanto, se riesco a fartelo comprendere. Una cosa soltanto ho da dirti: il tempo è soltanto un’invenzione, un metro per giudicare e valutare le nostre esistenze. Dovremmo astrarre da esso, entrare così nel vivo di noi stessi.

“Se non esiste il tempo, non esisto io, non esisti tu” il tuo sillogismo prova a portare nei territori della logica la partita. Ma il cuore sa sopperire alla ragione, sa cavalcarla e scavalcarla, sa spingersi al di là dell’ostacolo insormontabile con un atto d’amore. “Esistiamo nel tempo se stiamo insieme” offro come un fiore di carta abbandonato sull’altare di una divinità orientale. La breccia si apre, la porta di quel tempio si spalanca se allungando la mano verso la tazzina del caffè posata sul tavolino incontri la mia casualmente in cerca di zucchero e la sfiori e la accarezzi. Il tempo si è ristretto, il tempo all’improvviso è finito nel bacio di un tramonto.

 

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ROELOF ROSSOUW, “THE COFFEE SHOP”