Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede.
DANTE, Paradiso, XXXIII, 58-60
Tutto accadde così, all’improvviso mi ritrovai catapultato come Alice dentro lo specchio o come Dante nel mezzo del cammin di nostra vita. Ero in una selva, naturalmente, ma non di alberi e arbusti, di felci e licheni: un bosco di pilastri, di colonne ben bilanciate, decorate canonicamente con i capitelli d’acanto – cattedrale gotica, antico scriptorium di una biblioteca medievale. Ogni colonna dunque era un’idea, un perno portante per resistere al moto della luna e agli influssi delle maree. Ero nudo e mani si tendevano verso me, dita di fuoco che quando riuscivano a sfiorarmi mi lasciavano sulla pelle il loro marchio come un tatuaggio.
Eppure ero io quello che si era erto a vendicatore, ero io l’incarnazione della giustizia umana, un moderno conte di Montecristo evaso dalle pastoie della sua vita, tornato indietro per completare l’opera, punire chi c’era da punire e redimere chi c’era da redimere. Mi ero messo in caccia di tutti i pensieri molesti e li avevo schiacciati come tafani, i male accetti consigli spiaccicati sul muro, gli importuni discorsi infilzati allo spiedo. Dopo, le illusioni schiantate, i rimpianti libratisi in volo, i rimorsi mai digeriti hanno fatto meno male. Se avevo confuso l’essere con l’apparire, se avevo navigato tra lo spazio e il tempo, se mi ero perso come dadi rimescolati nei bussolotti, adesso avevo finalmente tra le mie mani il filo del destino...
E invece ero lì tra le colonne, in fuga da qualcosa, da qualcuno. La torma di scagnozzi spuntava dalla terra, dal pavimento di granito, dalle grate. Vedevo soltanto quelle loro braccia, le zampe, gli artigli. Vedevo il balenare delle fiamme, lo sentivo riverberare sulla mia pelle, sulle pareti, sulle scaffalature, sui confessionali, sulle arcate di pietra. Correvo, correvo a perdifiato. Doveva essere sterminato quel bosco di colonne, forse infinito, immerso in una luce fioca fin dove si poteva gettare lo sguardo, poi soltanto una cupa oscurità. Da una delle navate laterali uscì un frate rubizzo e opulento: “La diritta via!” urlò con voce squillante e intanto indicava una porticina dalla quale penetrava una luce ben più vivida. Decisi di fidarmi e la infilai... Subito si trasformò in una finestra, dalla quale entrava il sole dell’alba. Ero sveglio.
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