sabato 29 novembre 2014

Il tempo e il lavoro

 

La mia bisnonna non l’ho conosciuta: era una donna nata a fine Ottocento e scomparsa sul principio degli Anni Sessanta, prima che io venissi al mondo. Di lei conosco la fotografia austera su una lapide del cimitero di campagna dove è sepolta: una donna vestita di nero con i capelli grigi che dimostrava ben più della sua età, come tutti i nostri avi.

Questa bisnonna, che di nome faceva Margherita, diceva una frase che deve essere rimasta impressa a mia madre, visto che spesso me la ripeteva: “Il tempo non si vede, ma il lavoro sì”. Ovvero, per quanto ognuno di noi ci si applichi, il risultato del suo lavoro – che sia un oggetto fisico o intellettuale, che sia una sedia o una poesia, una tovaglia ricamata o un film -  conserva in sé il sudore necessario per ottenerlo o la spremitura di meningi.

Qualche anno fa, pochi giorni prima del penultimo Natale vissuto da mia madre, la aiutavo a pulire i globi di cristallo dei lampadari del suo salotto, e ancora una volta uscì quella frase, nel dialetto brianzolo con cui evidentemente la bisnonna Margherita lo pronunciava: “Bagàj, ul tèmp al se véd méa, ma ul laurà sé”. Io, in piedi sulla scala con il secchio, la spugna, il liquido per i vetri, chiesi a mia madre  qualcosa su quella sua nonna a me completamente sconosciuta.

Ebbene, quella frase era la richiesta di non badare al tempo necessario per svolgere un lavoro di ricamo: un impasto di onestà, di orgoglio e, perché no?, di gusto estetico: se qualcosa è fatto con cura, lo si noterà nell’oggetto finito. E naturalmente poi le cateratte della memoria si spalancarono e il ritratto venne ampliato:  ne uscirono i ricordi di una stalla dove la sera si faceva filò, di latte appena munto, di fette di salame spesse un dito, di polenta fumante… Poi è arrivato il progresso…

 

filò

FOTOGRAFIA © DIALETTICON

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