sabato 21 marzo 2015

L’iniziazione

 

Le parole hanno una forza che spesso sottovalutiamo: sanno blandire e accarezzare, come la voce flautata di una donna che sussurri momenti d'amore o di una madre che consoli il suo bambino con le ginocchia sbucciate; sanno trascinare, come negli infiammati discorsi di uomini carismatici; sanno anche ferire, talora inconsapevolmente. E sanno raggrupparsi come colori in un caleidoscopio per disegnare splendide poesie.

Ho spesso pensato che scrivere versi è compiere una specie di autoanalisi, valutare le proprie emozioni e fissarle perché non vadano perdute. Potrebbero essere, se l'immagine non mi facesse ribrezzo, farfalle fissate con uno spillo. Sì, scrivere significa conoscere se stessi, infilarsi nei meandri dell'inconscio e ricavarne impressioni che possiamo interpretare meglio dei sogni che vengono talora a popolare le nostre notti. Significa conoscere il proprio dolore o la propria malinconia, scavare terra per riportare alla luce le gioie dell'oro, per vedere rilucere le speranze, per risvegliare le illusioni.

C’è un momento fondamentale nella vita di un poeta, quello della folgorazione – come San Paolo sulla via di Damasco, ci si trova improvvisamente illuminati, sbalzati dal cavallo grigio della quotidianità, si comprende che il mondo ha un’essenza che ci viene rivelata in quel momento, la gioventù, è chiaro.

Il poeta è allora colto da un’ebbrezza, da una smania che lo porta a riconoscersi tale vergando i primi incerti versi, dei quali poi forse si vergognerà. Ma è il punto di partenza, l’iniziazione che ci porta nell’età adulta, come capita ancora in certe tribù che vivono ai margini della civiltà del XXI secolo.

Così capitò anche a me, ormai tanti anni fa, uno dei primi giorni di gennaio del 1980, attraversando in auto con mio padre uno sperduto paese di provincia. La poesia mi si manifestò, lampo improvviso nel grigio. Avevo poco più di 15 anni. Da allora ne scrivo ogni giorno, fedele al motto “Nulla dies sine linea”.

 

Criste

DIPINTO DI MIHAI CRISTE

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