Oggi, dopo quarant’anni, ho rivisto una mia compagna di classe delle elementari. Il mio percorso scolastico, dopo la scuola in paese con i miei coscritti, mi portò lontano da qui, verso posti sempre più lontani. Insomma, ci perdemmo di vista dopo l’esame di quinta elementare, dopo l’oratorio, dopo i nostri undici anni.
Certo, da soli quasi certamente non ci saremmo riconosciuti, ma lei era con sua madre e io con mio padre: sono stati loro a “riconoscere” in noi gli antichi compagni di classe. Ci siamo scambiati le informazioni indispensabili su questi quarant’anni: lei si è sposata, ha tre figlie, abita in un paese distante una quindicina di chilometri, più all’interno nella provincia. Era curiosa della sorte di alcuni dei compagni, che ha nominato. Chissà, tasselli nella memoria, visi di bambini che avevano allora un certo interesse.
Mi sono sentito addosso il tempo, non come un enorme macigno, come un peso piuttosto, ma un peso naturale, come lo zaino dell’escursionista che affronta la montagna: come quello ha l’equipaggiamento, la bussola, la torcia, la borraccia con l’acqua, noi abbiamo i nostri dolori, i nostri studi, le nostre gioie, gli amori, le illusioni…
Sono bastati cinque minuti a raccontarci sommariamente, mentre le cicale cantavano sotto i cipressi del camposanto – sì, perché quello è il luogo dove ci siamo incontrati, dove riposa mia madre, dove da qualche mese è sepolto suo padre. Ed è un altro sintomo del passaggio di questi quarant’anni: sempre più spesso incontro i miei compagni delle elementari in questo piccolo e ordinato cimitero di paese, ognuno di loro ha i suoi cari da onorare con un fiore e una preghiera, e spesso accompagna il genitore che è rimasto, ormai anziano, ricambiando amorevolmente le cure che ne aveva ricevuto.
Ci siamo salutati con un ciao, come quando da bambini lasciavamo l’aula e tornavamo a casa con le nostre biciclettine, e questi quarant’anni – nonostante tutto – non sembravano poi così tanti.
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