Un giorno di settembre l’alpino S. compiva gli anni. Merano era bellissima, ancora più dolce nella luce che scemava lentamente colorando di giallo i palazzi del centro e tingendo di luce riflessa le alte montagne a corona della città e le colline dove si vendemmiava l’uva matura. In più c’era l’attesa per l’evento dell’anno, il Gran Premio all’ippodromo di Maia Bassa.
L’alpino S. non era nella mia caserma del Logistico, ma in quella vecchia, dalla quale fui trasferito sul principio di luglio. Però avevamo legato nel mese e mezzo in cui ero rimasto là: così aveva convocato me e altri due amici che ancora si trovavano al Reparto Comando e Trasmissioni: ci aveva “invitato” a cena, in realtà era un modo elegante per dire che comunque ognuno avrebbe pagato la sua parte
Ci aveva dato appuntamento alle sei e mezza sul Lungopassirio, sulle panchine appena al di là del ponte del Teatro. Ci arrivai per la strada a me più comoda, ovvero risalendo Via Piave. Lui e gli altri sarebbero arrivati invece costeggiando il Passirio, come facevamo le sere di libera uscita quando anch’io mi trovavo con loro. Arrivai e già c’erano gli altri due seduti sulla panchina. «E S.?» domandai. «Mah» disse Braschi «ha detto che doveva prendere una cosa, tanto arriva in bicicletta». Infatti S. si era portato da casa la sua bicicletta rossa fiammante e scorrazzava qua e là nei dintorni il sabato e la domenica quando non era di servizio o in licenza. L’avevo aiutato io alla stazione delle autolinee a caricarla nel bagagliaio del pullman: facemmo tutto il viaggio insieme e fu in quelle tre ore che in pratica facemmo amicizia.
Aspettammo una decina di minuti, poi lo vedemmo spuntare dalla Piazza del Teatro con un sacchetto di plastica giallo del supermercato Meinl sul portapacchi. Era ancora presto – anche se a Merano già alle sei i ristoranti cominciavano a servire la cena e si riempivano in fretta. Decidemmo di andare in stazione, alla Mensa Ferrovieri a mangiare la “pastora”: si trattava di un piatto piuttosto abbondante di ravioli conditi con ricotta, funghi e salsiccia al finocchietto. Poi, per celebrare il compleanno, prendemmo anche lo strudel e una bottiglia di spumante dolce.
Uscimmo che nella sera di settembre era già calato il buio e si accendevano le stelle. Fu a quel punto – su una panchina nel parco antistante la stazione, vicino all’inferriata dove ancora era legata la sua preziosa bici che l’alpino S. aprì il sacchetto giallo che si era portato dietro per tutta la sera: c’era una bottiglia di grappa Williams alla pera con un pacchetto di bicchieri di carta. «È il mio compleanno» disse S., orgoglioso e fiero con un sorriso che sembrò luccicare alla luna «ragazzi, beviamo a questa giornata che soltanto una volta si passa sotto la naia!». Svitò, non senza fatica, il tappo della bottiglia e cominciò a versare un dito di grappa in ogni bicchiere, che subito distribuiva. «Prosit! A S.!» si levò il coro delle nostre voci. E bevemmo quel liquore forte dal sapore di pera. Scoprimmo subito che l’alpino S. non reggeva l’alcol: unito al mezzo bicchiere di Asti che aveva bevuto a tavola, quel poco di grappa lo mise K.O.: cominciò a ridere sguaiatamente e faticava a reggersi in piedi. Erano ormai le dieci passate, dovevamo rientrare in caserma per il contrappello delle undici.
Braschi e Gnutti presero l’alpino S. sotto braccio e si incamminarono per Corso Europa. Io presi per mano la bicicletta rossa e li accompagnai fino alla loro caserma. Li lasciai lì che mancava un quarto alle undici: avevo appena il tempo di tornare di buon passo al Logistico per essere in orario al passo carraio. Prima però guardai il cielo pieno di stelle e sospirai, sorridendo per la dolce ingenuità del mio amico.
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