sabato 8 ottobre 2016

Schneider Weisse

 

Quell’estate mi sentivo come un pugile suonato: avevo perso i contatti, mutato gli orizzonti. L’anno trascorso lontano per il militare in realtà significava averne persi due, dall’estate prima di partire a questa nuova nuova, passando per il magone delle brevi licenze di giugno e di luglio osservando i papaveri rossi in autostrada e sognando il mare. E anche lei se n’era andata, apparteneva a un’altra vita, a quella di prima. E anche gli Anni ’80 che finivano stavano portando dalle giacche colorate al grigiore uniforme del nuovo decennio.

Trascinavo per la città di mare la mia solitudine, gli amici erano tutti via: di qualcuno sapevo che era in Grecia, altri in Spagna, ma la maggior parte di loro ignoravo dove fossero. Passavo serate al cinema all’aperto o mi ubriacavo di romantica malinconia guardando la luna alzarsi dal mare e tingerlo d’argento, poi passeggiavo a lungo in compagnia dei miei ricordi mentre gli ombrelloni chiusi montavano la guardia alla spiaggia.

Una sera sedevo al solito bar, scorsi la lista della birre e ordinai una Schneider Weisse, in memoria delle sere passate al Café Liszt di Merano. La cameriera che me la portò ardì di domandare «Come mai ha scelto questa birra? Qui la chiedono solo i tedeschi». Le raccontai che avevo da pochi mesi finito l’anno di militare a Merano e che là qualche volta la chiedevo invece della solita Radler o della vodka-lemon. Le dissi che la luna nel Passirio non era poi così diversa da quella che ora si specchiava nel mare vicino a noi.

Eravamo in pochi quella sera che ormai diventava notte, ai tavolini all’aperto di quel bar. Alla conversazione si unì un tale sulla quarantina, che disse di venire da Latina e di essere un giornalista. Chiese cortesemente «Posso?», appoggiò il suo whisky con ghiaccio e accostò la sua sedia al tavolino. Sorseggiavo lentamente quel liquido ambrato che sotto le luci dei lampioni prendeva tonalità opalescenti: ne sentivo sul palato il sapore fruttato, il gusto di lievito non filtrato, che ricordava vagamente il profumo del glicine. E mi ritrovai senza nemmeno sapere perché a raccontare la mia vita e le mie vicissitudini amorose a un estraneo – be’, per lo meno si era presentato come Angelo.

Mi ero talmente calato in quella parte che solo un paio d’ore prima, uscendo dal cinema all’aperto dove avevo visto “Rain Man”, avrei detto non mia. Così conclusi il mio discorso con un’uscita ad effetto, da guascone o vagabondo navigato: «Ho solo stanze per dormire e notti per sognare». Forse era la Schneider Weisse che parlava per me come un avvocato delle cause perse.

Rimanemmo in silenzio. Anche Angelo inseguiva un suo pensiero che forse gli avevo risvegliato io stesso. In lontananza si sentiva cantare il mare…

 

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