sabato 14 gennaio 2017

Le ragazze del treno

 

C’è una poesia, intitolata Cose in comune, che il poeta catalano Joan Margarit dedica a una ragazza conosciuta su un treno tanti anni prima e mai più rivista: «Le poesie, che sono lettere anonime, /  scritte dove non immagini, / alla stessa ragazza che un autunno / conobbi su un treno vuoto». Mi è molto piaciuta e mi sono messo, dall’alto della mia lunga carriera di viaggiatore di treno, a richiamare, parafrasando il Gozzano del Convito, «le poche donne che mi sorrisero in... treno».

Naturalmente, quelle della compagnia che si era formata ai tempi del ginnasio, e che avrei portato avanti fino alla maturità classica. In cinque anni ci fu quella che si era innamorata di me o della mia timidezza, e che svanì un mattino quando un’altra ragazza ci comunicò che «quella scema» aveva abbandonato al primo anno le magistrali. Ce ne fu un’altra della quale invece mi innamorai vagamente io, la sognavo ascoltando le canzoni sul divano e mi creavo delle specie di videoclip con lei e me protagonisti. Cotta passeggera, se ne andò in fretta. Valentina, Marta, Donatella, Claudia, Anna, Alessandra erano amiche più che altro, ben lontane dalla ragazza di Margarit.

A quel tipo si addiceva di più Silvia (se quello era il suo nome, visto che nutrivo dei dubbi su quello che mi raccontò di lei): mi attaccò bottone appena salii alla stazione e se ne andò poi per una strada che non corrispondeva a tutto quello che mi aveva detto. E il suo abito elegante, un completo pantaloni e bolero blu su una camicetta bianca stonava notevolmente con la sua tracolla militare consunta e piena di scritte a biro blu. Andai alla mia interrogazione di storia – per la quale non avevo studiato in treno per colpa sua – ripensando alle contraddizioni che incarnava. Non la rividi più.

Molte ne incontrai ai tempi dell’Università, ma nessuna in qualche maniera rimase impressa nella mia memoria: come gocce in un mare di visi visti tutti i giorni, nel languore dell’alba o nella stanchezza del pomeriggio. Forse una, della quale ricordo i capelli biondi e ricci, poteva somigliare alla Meg Ryan di Harry ti presento Sally: la cosa curiosa è che il ricordo più nitido che mi appare è il fatto che avesse con sé una copia di Cucina moderna.

Quella che ricordo con più piacere è però un’insegnante di Salerno che aveva cattedra a Monza: ci incontrammo su un treno in ritardo che accumulava ulteriore ritardo. È facile in questi casi lamentarsi, fare gruppo contro le ferrovie, contro il mondo che ci manda all’aria gli impegni e la routine. Parlammo per più di un’ora di Alfonso Gatto, della costiera, e mi affascinava quell’accento meridionale che il suo sorriso ingentiliva ancora di più. Le segnalai alcuni posti interessanti che poteva visitare nei dintorni, poi giunse la sua fermata. Proseguii verso Milano e mi accorsi che non ci eravamo nemmeno presentati. Di lei non sapevo neppure il nome...

 

Edward Hopper, Scompartimento C, Carrozza 293, 1938
New York, IBM Corporation Collection

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