Da una finestra a Ponente entra l’ultima luce del giorno, data quasi matematicamente dall’arancione che sbiadisce sopra i monti e dai primi lampioni per comodità accesi. Il cinereo pallore di quella luce rivela a occhi abituati e memori la parete con le stampe di dipinti ottocenteschi, una Classe di ballo di Degas, le Ninfee di Monet, il volto del Cristo in legno, cartoline dal mondo.
Sul letto una coperta a righe, tendine alle finestre, uno scrittoio e una libreria; un grande armadio completa la camera. L’uomo seduto al centro della stanza, un poeta, smette di contemplare il tramonto e accende la luce con uno scatto metallico che va a disturbare la musica ricca di suoni di sassofono che riempie la stanza come il caldo pulsare di un cuore.
Sullo scrittoio è posato un fascio di carte legate con un nastro di raso cremisi. Sembra abbandonato con noncuranza, deposto inavvertitamente tra un fermacarte opalescente di vetro di Murano che irradia riflessi luminosi e un portapenne americano di ceramica dal costo spropositato riempito di vecchie penne stilografiche. Invece, quei cartigli sono stati collocati con cura, anche se con mano un poco incerta, dal poeta, in un rituale quasi religioso: come se da quei fogli un aruspice avesse potuto trarre il futuro con gesti misurati, come si faceva con i visceri della vittima sacrificale.
Il poeta li ha soppesati nella mano, ha anche fatto due, tre volte il gesto di aprirli, di sciogliere il nodo e lasciarli spalancare con tutti i loro segreti sullo scrittoio al pari di un mazzo di fiori trattenuto dall’incarto. No, li ha semplicemente adagiati con delicatezza tra il fermacarte e il portapenne, apparentemente dimenticati sul piano di legno mentre il buio invadeva la stanza e il tramonto entrava prepotente a riportare ricordi quasi dimenticati.
Ore prima, stava riordinando il garage quando da una scatola di sigari posata sul culmine di uno scaffale polveroso era uscito quel fascio di carte. Seppe subito che cosa aveva rinvenuto: poesie di tanti anni prima, rimaste nell’oblio di quel nascondiglio, dimenticate a lungo, fino a che l’occhio non aveva scorto quel nastro cremisi. Aveva smesso di riordinare il garage, si era lavato le mani ed era rimasto ad osservare quel tesoro senza avere il coraggio di aprirlo. Ricordava...
Ma ora, ragionandovi, non riesce a spiegarsi quell’arcano timore che ha provato nel tenere le carte nel pugno Le prende senza più esitare, lascia cadere sullo scrittoio il nastro, che forma una macchia rossa sul ripiano e comincia a leggere il primo foglio:
NOTTE
Mi intromisi
nello scorrere del tempo.
Ti guardavo
- un tenero fiore di giada
ad ali chiuse.
Quando cantò un bacio,
mio amore,
la stella alle labbra
un altro tempo ci portò.
Il volto di una donna si impone violentemente alla memoria, vi si è insinuato già quando ha aperto la scatola di sigari. Il tenero fiore è lì, uscito dalla penombra della stanza, come proiettato sul muro, dove spicca tra le stampe la sua nudità. Il poeta ricorda quella notte: ebbro d’amore si era seduto a quello stesso scrittoio per vergare di getto quei pochi versi, gli era sembrato che il tempo fluisse nella penna, che fuggisse via tutto nelle parole ricordandogli che lei non era sua, che non lo sarebbe stata mai. E non lo fu.
Il sole si è inabissato nell’oceano dei monti, rimangono solo le strisce del suo passaggio come impronte di pneumatici su una strada sabbiosa, graffi lasciati nel cielo per non cadere giù. Il secondo foglio riporta un’altra poesia:
UN BACIO
Riprende stasera
la malinconia,
fatto oro il vetro.
Studiato con gentilezza
il mare,
solo un bacio rimane
come piccoli semi.
Incontrarla e fare a meno
delle labbra non potevo.
Mi ha premuto sul respiro
la sua improvvisa bocca socchiusa.
Non conoscerla non sapevo.
Non ha detto altro che
«Questa impossibilità d’amare»
e si è allontanata.
Li sente quasi ora quei baci appassionati, sente il seno morbido di lei contro il petto quando gli si stringeva nella sera dorata. E prova ancora l’amarezza infinita che gli rimaneva in cuore quando lei se ne andava. Ed arrivava, come in quel momento, la malinconia. Un groppo in gola: ecco il timore che paventava inconsciamente. Quel groppo in gola di quando lei se ne andò per sempre dopo aver tenuto un lungo discorso sull’amore impossibile che non poteva e non voleva vivere. Il poeta, a quel punto, si era perso, aveva lasciato che le parole di lei fluissero come un rubinetto lasciato aperto: «Un amore impossibile» si ripeteva in silenzio, «come i numeri impossibili» e cercava di ricordare cosa fossero... «Sarà colpa mia o colpa tua, ma così non va» concluse lei «Non sento niente». E se n’era andata lasciando memorie di sé: una fotografia scattata in una località turistica, fiori che appassivano, una raffinata rivista di moda.
C’è un’ultima poesia:
TI PENSERÒ
Ti penserò poggiata,
le braccia sulle ginocchia
e fuori la foga dell’acqua,
vis-à-vis con il caminetto
fingerò d’ignorare
che tu sia di un altro,
che per ignoti meccanismi
una notte mi abbandonasti.
Una lacrima scende lungo la guancia del poeta: il ricordo ha ferito la sua anima più di una punta acuminata, di una lancia nel costato. Tanti anni non sono bastati a cancellare la donna: permane in lui come un umore nel sangue, un’essenza in profondità, indelebile, indistruttibile.
La notte sta calando, accendendo i piccoli spilli delle stelle, i monti sono diventati ombre scure; anche la musica si è fermata. Il poeta ripesca in un cassetto la fotografia che lei aveva lasciato con i fiori e la rivista la notte che se n’era andata. Le rose erano seccate e le aveva gettate nella spazzatura, la rivista di moda aveva acceso più volte il fuoco nel camino. La fotografia invece è lì, ora, nelle sue mani. Guarda un’ultima volta quel viso, la bocca sorridente, i capelli raccolti in una coda, lo sguardo troppo dolce e poi lacera la fotografia, la riduce in piccoli pezzetti. Gli sembra di aver lacerato il suo stesso cuore.
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