Durante la bella stagione, la domenica pomeriggio amo sedermi in terrazza, all’ombra, e osservare la gente che passa per la strada. La mia casa è sulla via che taglia in due il paese, è dunque una strada di scorrimento che consente di raggiungere poi lungo le tante traverse altri luoghi.
Così vedo la vedova che va al camposanto: sul cestino della bicicletta ha i fiori da portare al marito defunto - li ha appena colti nel suo giardino, oppure li ha comprati dalla fiorista che c'è all’ingresso del paese e che tiene aperto anche di domenica. E poi le tante famigliole che, sempre in bicicletta, intraprendono la gita sull’alzaia: variamente composte quanto al numero dei figli, ma generalmente con il padre a tirare il gruppo e la madre a chiuderlo, come una chioccia. E ancora i cicloamatori che sfrecciano via sulle loro biciclette da corsa o da montagna in un sibilare di copertoni: mi fanno pensare spesso a un’opera futurista di Boccioni, quell’inno alla velocità che è tutto un susseguirsi di raggi e di ruote. Ci sono poi gli sfaccendato che si dirigono lentamente verso i bar: fumando quasi abulici, camminano come se non avessero una meta o come se non sapessero in che modo impiegare il loro tempo. In realtà so che li aspetta un pomeriggio di giochi di carte - la briscola chiamata, lo scopone scientifico - o di biliardo, mentre la televisione sospesa passa gli avvenimenti sportivi della giornata e le birre e i bianchini si alternano sui tavoli. E poi i ragazzini che si avviano festosi, a piedi o in bicicletta, chi verso l’oratorio, chi verso altri luoghi di divertimento o di raccolta, dove fioriscono le prime cotte e i primi amori come virgulti di piante ancora deboli nella loro prima primavera.
Io sono lì, sospeso a tre metri d’altezza, e nutro l’illusione di avere condiviso quelle loro esistenze, di avere fatto parte, anche se solo per pochi istanti, di quelle vite, la domenica pomeriggio.
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